Disponibile a partire dallo scorso maggio il nuovo album dell’artista, intitolato “Guardare fuori”
Ironia e profondità hanno sempre rappresentato la cifra stilistica di Federico Stragà, andando a braccetto nella stessa direzione tra lo scanzonato e il ponderato. “L’astronauta”, “Cigno macigno”, “Eleonora non si innamora” e “Il coccodrillo vegetariano”, sono soltanto alcuni dei suoi successi commerciali ottenuti nei primi anni duemila, a cavallo tra due epoche. Oggi, a dieci anni di distanza dal suo album di cover dedicato a Frank Sinatra, torna un un disco di inediti intitolato “Guardare fuori”, in cui si scopre in veste di autore di tutti i dieci brani presenti in scaletta.
Ciao Federico, partiamo da “Guardare fuori”, il tuo nuovo album, da quale idea iniziale sei partito?
«Dalla semplice idea di scrivere canzoni, se non altro dalla voglia di farlo per la prima volta. In passato, nei miei dischi precedenti, avevo collaborato e scritto qualche testo, giusto per casualità, mi sono sempre considerato un interprete più che un cantautore. Qualche anno fa, ho preso una chitarra in mano e mi sono detto “ma perché?”, perché partire dal presupposto che lo scrivere canzoni sia un qualcosa che debba dipendere dagli altri, così ho deciso di provarci in maniera più costante, un aspetto inedito per me e un processo creativo di cui oggi non potrei più fare a meno».
C’è una veste precisa che hai voluto dare alle dieci tracce presenti, sia a livello di sonorità che nei testi?
«Per quanto riguarda i testi, avendoli scritti in prima persona, prendono spunto da me e dal mio vissuto, come minimo denominatore comune hanno un qualcosa di autobiografico ma stimolato dagli eventi esterni. Con il mio arrangiatore, in un secondo momento, abbiamo cercato di rendere le sonorità attuali, per non rischiare di andare troppo sul “vecchio”, considerando che i miei gusti musicali sono tendenzialmente vintage, diciamo pure antichi, per non risultare fuori tempo e fuori contesto».
“Ho esaurito la paura” è il pezzo che ha anticipato il tuo nuovo progetto discografico, come mai proprio questa scelta?
«Sai, come capita sempre, quando devi prendere una decisione ognuno ti dice la sua opinione, anche in questo caso ho seguito l’istinto. Sicuramente ho scelto un pezzo che, in qualche modo, potesse risultare leggermente più fresco e adatto al periodo estivo, ma che racchiude un messaggio e un senso profondo, che ho voluto sottolineare anche attraverso le immagini del videoclip diretto da Simone Pirazzoli e girato a L’Aquila. La paura del terremoto è sicuramente uno dei timori più grandi che possa provare un essere umano, per questo motivo l’ho trovato perfettamente attinente con la canzone».
Nell’immaginario collettivo, però, sei stato considerato sin dai tuoi esordi un cantautore, forse per lo stile interpretativo e per una certa ricerca del repertorio. Come ti senti a poter gridare al mondo: “Signori, questa volta sì, ho scritto tutto io”?
«Beh, è una figata! Finalmente mi sono sbloccato, in maniera naturale, istintiva e spontanea. Non ho mai sofferto il peso di questa cosa, anzi, ho sempre precisato che quei pezzi non li avevo scritti io. Mi hanno stupito alcuni commenti dopo l’uscita del mio album, cose del tipo “finalmente è tornato lo Stragà che conosciamo”, è curioso a pensarci, perché effettivamente il 90% delle persone mi conoscono per pezzi che hanno riscosso un buon successo, ma che non avevo scritto io. Evidentemente ci sarà stata un’influenza involontaria, ho proseguito in quella direzione, ma sin dalla prima canzone che ho proposto all’Accademia di Sanremo nel ’97, intitolata “La notte di San Lorenzo”, ho tenuto a sottolineare chi fosse l’autore del pezzo, ma mi sono sempre portato dietro l’etichetta di “cantautore”, mi fa piacere per carità, ma non corrispondeva alla realtà».
Ripensando alle tue due partecipazioni al Festival di Sanremo, una tra i giovani e una tra i big, cosa hai provato su quel palco?
«Grande paura, di carattere mi reputo abbastanza introverso, oggi sono meno timido di ieri, il palcoscenico in generale mi ha sempre trasmesso adrenalina e ansia da prestazione, figuriamoci a Sanremo. Riguardo la mia prima partecipazione, sono arrivato al Festival senza passare per vie intermedie, passando dal locale di Belluno al Teatro Ariston, esperienza che ho vissuto con terrore, come puoi immaginare. La seconda volta, invece, eravamo in due e abbiamo diviso le ansie a metà».
Con un gran pezzo intitolato “Volere volare” che, forse, è stato svalorizzato dal duetto?
«Ne sono convinto e di questo mi dispiace, ma non per Anna Tatangelo che, proprio come me, è stata una vittima inconsapevole di un’operazione un po’ appiccicata. Si tratta di un brano che è stato stravolto rispetto alla versione originale, che era molto più onesta. Se avessi avuto un po’ di palle mi sarei imposto maggiormente e, magari, avrei rifiutato. Il mio discografico dell’epoca Bruno Tibaldi, non badava troppo alla mia costruzione artistica e agli aspetti più puri di questo mestiere, come può essere lo scrivere canzoni».
Dove ti collochi nell’attuale scenario discografico e quali cambiamenti hai avvertito negli anni rispetto ai tuoi esordi?
«Faccio fatica a collocarmi, ma nella vita in generale non solo a livello discografico, come canto in una mia nuova canzone che si intitola “Indeciso”. Del mercato discografico, ti confesso che già ne capivo poco a suo tempo, figuriamoci adesso, dopo anni in cui lo osservo da lontano, continuando a fare musica solo per il piacere di farla. Mi sento come un piccolo artigiano che ha la sua bottega in centro, mentre i talent rappresentano un po’ la grande distribuzione, quei centri commerciali che vengono presi d’assalto nei weekend. Premesso che non ho nulla contro chi fa divulgazione di massa, la mia percezione è un po’ questa, il mio più grande obiettivo oggi è quello di scrivere canzoni, punto tutto su questo e il resto non mi coinvolge più di tanto, cerco di non farmi influenzare da quello che c’è intorno».
Come valuti il livello artistico delle attuali proposte?
«Me lo chiedono in molti, ma non so dare una risposta. Sarò un nostalgico, ma se faccio un paragone con il passato trovo che il livello generale sia precipitato verso il basso. Da un certo punto di vista mi sembrano tutti brani, da un’altra angolazione nulla mi coinvolge come riascoltare i cantautori con cui sono cresciuto. Sicuramente una cosa che non mi piace di quello che passa oggi in radio è l’uniformità, nelle canzoni ci sono un sacco di parole ma sempre le stesse, come se il dizionario della lingua italiana si fosse ridotto in un bignami».
Alla luce di tutto quello che ci siamo detti, per concludere, quale messaggio vorresti trasmettere al pubblico, oggi, attraverso la tua musica?
«Guarda, non saprei. L’unico messaggio che vorrei dare non arriva attraverso le canzoni, bensì nel modo in cui sono nate, che è un po’ il riassunto di quello che ci siamo detti. Spero di trasmettere lo spirito, la voglia di tornare un po’ indietro, di fare canzoni con la stessa purezza di un tempo. Mi piacerebbe che mia figlia e tutti i giovani vivessero la musica come l’abbiamo vissuta noi, dando importanza alle parole e alla musica, in modo tale da non essere più considerata un prodotto usa e getta. Scrivere un pezzo è un atto molto intimo, se vogliamo anche un gesto di generosità nei confronti del pubblico, che può fare propria un’emozione nata da qualcun altro. Vorrei che fosse rivalutata la figura di chi cuce su misura le proprie canzoni, non mi riferisco a me ma ai veri cantautori. E vaffanculo a tutti! Mi raccomando, mettilo alla fine… così concludiamo questa chiacchierata con un po’ di rock!».
Nico Donvito
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