A tu per tu con il giovane cantautore classe ’95, in uscita con il suo primo EP intitolato “Piccoli boati“
Uno stile interessante e tante cose da dire, questi i due ingredienti principali della ricetta Tananai, alter ego artistico di Alberto Cotta Ramusino. “Piccoli boati” è il lavoro che segna il suo debutto discografico, contenente sei canzoni che attraversano vari stati d’animo emotivi, mostrando una panoramica di quello che è il suo mondo introspettivo-musicale. Approfondiamo la sua conoscenza.
Ciao Alberto, benvenuto. “Piccoli boati” è il titolo del tuo EP d’esordio, che contiene sei brani inediti. Cosa hai voluto fotografare in questa tua prima rappresentazione in musica?
«Molto semplicemente il mio percorso di questi ultimi miei due anni di vita, durante i quali ho scritto soltanto quando ne ho avvertito la necessità e sono stato molto rispettoso dell’ispirazione. Racconta diverse fasi delle relazioni e dell’innamoramento in generale, tant’è che le sei canzoni sono state inserite in ordine cronologico, così come sono nate».
Hai definito questo lavoro come tutto ciò che di buono ti è successo negli ultimi anni, come sono stati e come li descriveresti?
«Li descriverei buoni, nel senso che mi sono sentito di parlare sia dei momenti felici che di quelli tristi. Diciamo pure che non mi sono annoiato, tutto ciò che mi è capitato mi ha smosso qualcosa all’interno, posso ritenermi fortunato, in questi ultimi anni ho vissuto abbastanza per poter sentire qualcosa dentro che, spero, di essere riuscito a mettere all’interno di questo EP».
Canzoni leggere ma allo stesso tempo profonde, racconti di te e in qualche modo permetti a chi ti ascolta di immedesimarsi, perché non racconti cose lontane dalla realtà. In un momento storico in cui nelle canzoni si tende anche ad esagerare, ad enfatizzare, ad estremizzare tutto, pensi che attraverso la semplicità si possa andare a recuperare un po’ di universalità e di immedesimazione?
«Sì, hai già risposto tu (sorride, ndr). Questa è la mia visione della musica, che poi non è detto che sia quella corretta, per come la vedo io non c’è niente di più speciale della quotidianità, perché alla fine la bellezza del vivere di giorno in giorno è che ogni piccola cosa ha il suo valore, basta prestarle la giusta attenzione. La mia idea della musica è che più una cosa è genuina e più arriva, se un mondo non ti appartiene è inutile farsi portavoce di determinate cose. Attraverso la semplicità spero di poter arrivare a tutti».
Facciamo un salto indietro nel tempo, nel tuo caso breve, c’è stato un momento preciso in cui hai capito che tu e la musica eravate fatti l’uno per l’altra?
«In realtà sì, l’ho capito nel momento in cui ho deciso di lasciare l’università, perché precedentemente avevo il sogno di diventare architetto. Poi, un giorno, mi sono reso conto che la musica era più importante e che ero davvero felice quando suonavo; hai presente quando il tempo passa e nemmeno te ne accorgi? Ecco, questo nella vita mi è capitato solo facendo musica. Quando mi sono trovato di fronte ad un bivio, ho riflettuto proprio su questo e lì ho capito in maniera piuttosto palese quanto fosse importante».
Tananai è il nomignolo che ti ha affibbiato da piccolo tuo nonno, cosa significa esattamente?
«Tananai è una sorta di modo affettuoso per definire un casinista, una piccola peste, o almeno mio nonno mi chiamava così attribuendo al termine questo significato. Da piccolo ero decisamente pestifero».
Nonostante la tua giovane età, non sei nuovo alla discografia, nel senso che hai già presentato dei lavori con lo pseudonimo di Not For Us, un progetto musicalmente diverso rispetto a quello con cui ti presenti oggi. Cosa è cambiato sia dentro che intorno a te?
«Nel pratico mi sono trasferito e sono andato a vivere da solo a Lambrate, stando in un posto nuovo ho cominciato a frequentare gente nuova, a vivere la mia città in maniera diversa, questo ha sicuramente influito, anche convivere con due coinquilini è un’esperienza che mi ha sicuramente cambiato. Sono cresciuto, in realtà Not For Us è servito molto a Tananai, aver già rilasciato un album mi ha fatto provare per la prima volta la paura di non essere capito, ho provato una sorta di depressione post-parto, ho sentito una specie di vuoto. Sai, non ho mai avuto dubbi con la musica, l’unica volta che ho mi sono messo realmente in discussione è stato dopo il rilascio di quel disco, perché sentivo di avere tanto dentro ma di non essere stato in grado a tirarlo fuori come si deve, a metterlo nero su bianco.
Con “Piccoli boati” ho avuto la reazione contraria, sono contento e orgoglioso di questo lavoro perché sento di essere stato me stesso al 100%, mentre nei miei lavori precedenti pensavo spesso al contesto esterno, a come potesse essere percepito da fuori. Quella crisi mi ha aiutato a capire che la parola potesse essere abbinata alla musica».
Dal 6 marzo tornerai ad esibirti dal vivo, in che modo sarà strutturato lo spettacolo?
«Molto banalmente, saremo sul palco in quattro, io e quegli scemi dei miei tre amici che mi seguono in questa avventura. Saremo lì a divertirci, parlando di genuinità penso che i nostri live possano piacere perché si percepisce grande sintonia ci sia tra noi, indipendentemente da come possa andare, comunque ce la stiamo spassando».
Per concludere, dove e a chi ti piacerebbe arrivare attraverso la tua musica? Hai un pubblico di riferimento e degli obiettivi che ti piacerebbe raggiungere?
«Sai che no? Cioè, davvero, ho smesso di pormi degli obiettivi perché credo mi distraggano dalle sensazioni del quotidiano. Il concetto del “carpe diem” è molto simile al discorso che ti facevo prima sul lasciare scorrere il tempo, secondo me nutrire delle aspettative a lungo termine non ti permette di goderti il tragitto, di fare attenzione a quello che ti succede nel mentre. Più che arrivare ad un determinato target, in futuro mi piacerebbe raggiungere un pubblico sempre più vasto, suonare in un posto con tante persone tutte lì per ascoltare la mia musica».
© foto di Any Okolie
Nico Donvito
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