Intervista al cantautore campano
Capita a tutti, prima o poi, di tirare il fiato, prendere quell’unico, grande respiro prima di un salto che, nel bene e nel male, farà la differenza nella nostra vita. Lo sa bene Lacasta, pseudonimo di Manuel Castagna, cantautore campano, originario della provincia di Salerno, che dall’inizio di questo turbolento 2020 si sta, a piccoli passi, imponendo come una delle piccole realtà cantautorali più interessanti del panorama musicale emergente.
Manuel Castagna era un ragazzino che, nonostante le sue insicurezze, è sempre riuscito a trovare la strada maestra verso i suoi sogni. Cosa lo spingeva da piccolo ad afferrare un microfono e a iniziare a cantare?
“Il movente principale non saprei identificarlo. Diciamo che è un po’ come camminare. Lo fai perché devi e perché di fa stare bene. Mi sono ritrovato nella musica anche grazie a mio padre che mi faceva ascoltare Mina, Celentano, De André, Patty Pravo. Le mie radici musicali infatti risiedono in un mondo “vecchio stile” che mio padre mi faceva ascoltare”.
La strada di Manuel e quella di Lacasta a un certo punto si sono unite
“Il vecchio me faticava a uscire dalla stanza, a rapportarsi, anche a dire la sua. Ero sempre un po’ quello “dietro le quinte, che nonostante il suo carattere forte manteneva sempre una certa distanza da quella che era la sua realtà sociale. È nella continua ricerca di ritrovarmi in una casta sociale che nasce poi la mia persona effettiva, che non è un personaggio, ma la rivelazione di ciò che sono realmente. Sono riuscito finalmente così ad abbattere i miei stereotipi, riuscendo anche ad accettarmi”.
Cosa rappresenta “Lacasta”?
“Tutti potrebbero pensare che si riferisca al mio cognome, e in effetti ci starebbe anche bene (ride, ndr), ma in realtà parte dalla continua ricerca di ritrovarmi in una casta sociale. Non sono una persona classista, assolutamente, ma mi sono sempre trovato a rapportarmi con i “figli di papà” come con i ragazzi “di strada”, e sebbene mi ci sia sempre trovato bene, non sono mai riuscito a identificarmi. Nasce quindi la mia personale casta sociale, Lacasta, che prende ispirazione da una nota poesia di Totò, ‘A livella, che recita: “La casta è casta e va, si, rispettata”, quindi va rispettata a prescindere dal tuo ceto sociale, poiché se su questa terra possiamo sentire delle differenze sociali, un giorno, in un’altra vita, differenze non ce ne saranno. Come diceva Totò, “muort si tu, e muort so’ io”.
Lacasta è nato senza avvisare, ed è arrivato così il momento di uscire dalla cameretta…
“Non c’è stato alcun ragionamento dietro, Lacasta è nato e basta. C’è sempre stata la mia scrittura che mi sosteneva. Erano sfoghi di creatività, momenti personali che una sera di novembre hanno preso vita in una canzone. Mi sono detto “Se io esisto, e la vita è una, perché non esistere come io vorrei?”. La scintilla è scattata, ho deciso di esistere, nonostante la società, che in un modo o in un altro avrà sempre da ridire sulla tua persona, però niente ero prima e niente sono adesso. Non è un rapportarmi, attraverso la mia musica, per ricevere del consenso e della fama, di quello ce ne facciamo ben poco nella vita. Nel momento in cui io mi definisco un artista, non sono una persona che cerca la fama, ma sono una persona che vuole dire “io esisto e anche io ho una storia”.
Lacasta prende vita con il tuo primo singolo, “Negroni“
“Sì. L’accettazione della mia persona è avvenuta con quel pezzo”.
Quando è uscito “Negroni” eri molto emozionato, perché eri riuscito a trovare per la prima volta il coraggio di mostrarti alle persone in tutta la tua vulnerabilità?
“Era un po’ il mio piccolo segreto cantare. Avendo proseguito i miei studi nel campo della moda, la gente, quando ho iniziato a creare “hype” intorno all’uscita di questo pezzo, pensava stessi sviluppando un brand o una collection. Nessuno se lo aspettava, e forse è stata anche questa la rivelazione. Una rivelazione per gli altri ma anche per me, perché approcciarmi attraverso le mie parole al pubblico è stato molto difficile. Poi sono successe tante cose belle, scoprendo e legando con vari artisti. Ho ritrovato quell’unione che amo nell’arte con persone che non conoscevo. Le persone dovrebbero capire che è l’unione che fa la forza”.
A proposito di unione che fa la forza, le collaborazioni nella scena emergente non sono solite, siccome numerosi artisti preferiscono fare gioco a sé. Nel tuo secondo singolo, “Fino all’ultima (E45)”, che ti ha dato anche numerose soddisfazioni, hai deciso proprio di collaborare con un’altra cantautrice, Daria Tegolo. Ce ne parli?
“Fino all’ultima (E45)” è nata da un messaggio in direct su Instagram, in cui un’artista che stimo tanto, Daria Tegolo, mi faceva dei complimenti che arrivavano dal cuore. È in lei che ho ritrovato il mio sogno da ragazzino. Lei mi dice di avere un brano tra le mani che, come mi disse, sarebbe stato il mio vestito. In quel vestito mi sono ritrovato, narrando una storia che non era mia, ma che mi ha visto integrare il mio personale vissuto in un testo non scritto da me. È questa la cosa bella della collaborazione tra artisti emergenti. Trovo che la competizione tra artisti non porti a nulla, ma è collaborare e raccontarsi che crea qualcosa di unico. È questa la chiave, non del successo, ma della creazione di un buon progetto”.
https://www.youtube.com/watch?v=PeTI-gTuAIk
È uscito da poche settimane “Taranta“, brano che si allontana in maniera consistente dall’immagine che hai dato, fino ad oggi, di te attraverso la tua musica.
“Taranta” è stata una mia seconda rivelazione. Il mio modo di cantare e scrivere è sempre appartenuto a un mondo cupo, in cui mi ritrovo molto. Mi piace nutrirmi del mio male e della mia sofferenza. Con questo brano ho deciso di apprezzare un contesto più leggero, non frivolo, che mi ha permesso di cimentarmi con qualcosa per me nuovo. È stata una sfida complessa, e per questo ringrazio il mio produttore, Arrey Black, per aver capito quello che potevo essere”.
Ci è voluto tanto per arrivare a questa consapevolezza, ma oggi riesci a guardarti allo specchio e a definirti un cantautore?
“Quella consapevolezza non è ancora arrivata. Darmi un’etichetta è sempre stato qualcosa che ho tenuto alla larga da me. Mi definisco un artista, senza dubbio, ma soprattutto mi definisco un’anima più che un cantautore. Sono una persona che dice, scrive, fa cose. Non è delineato, ma in questo momento riesco a guardarmi allo specchio, con la coda dell’occhio”.
Da inizio 2020, quando tutto è partito, qual è la cosa che ti fa dire, e soprattutto ti fa capire, di stare facendo la cosa giusta?
“Spesso lo identifico dalle parole dei miei genitori. Nello stereotipo di un genitore, un figlio dovrebbe conquistare una certa concretezza nella vita. Ho quindi seguito sempre i desideri dei miei genitori. Ad oggi loro sono gli ultimi a sapere le mie cose, e a volte odio fargli ascoltare la mia musica, come ad esempio oggi, che stavano ascoltando “Taranta”.
E cosa hanno detto?
“Gli piace, sono felici. Sono contenti di vedermi padrone un’altra volta di una serenità che vada al di là del mondo della moda, che ho frequentato fino ad oggi”.
Quindi la tua soddisfazione arriva da questa loro “apertura” verso la tua nuova strada?
“Sì. Finalmente capiscono che esiste questo mestiere ed esiste anche volerlo fare e amarlo, dato che loro vedono il sogno d’arte molto lontano. “Non si mangia d’arte”, si dice spesso, ma in realtà non è così. Non si mangerà economicamente d’arte, ma per me esiste altro. Esistono le emozioni, le sensazioni che si provano attraverso questo mestiere”.
Manuel Castagna dove vorrebbe che arrivasse Lacasta?
“Ho sempre avuto la vecchia abitudine di guardare il Festival di Sanremo con i miei genitori, da sempre. Anche quando eravamo distanti, c’era sempre il commento su Whatsapp. Mi piacerebbe vedere l’emozione dei miei genitori che assistono a Lacasta su quel palco, come l’emozione che sapevano donare loro i grandi artisti degli anni ’80”.
https://www.youtube.com/watch?v=s0cyxaQNDUA
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