A tu per tu con il popolare artista catanese, in uscita con il suo tredicesimo album in studio, intitolato “Dare“
Mezzo secolo a ritmo di soul e di jazz per Mario Biondi, che ha da poco festeggiato il suo cinquantesimo compleanno pubblicando “Dare“, un lavoro che unisce lo stile degli esordi a nuove sonorità sempre molto ricercate e sofisticate. In occasione di questa nuova uscita, abbiamo raggiunto telefonicamente l’artista catanese per approfondire la conoscenza della sua ispirata visione di vita e di musica.
Ciao Mario, benvenuto. Partiamo da “Dare“, da quali idee sei partito e come si è sviluppato l’intero processo creativo?
«La verità è che avrei voluto fare quattro dischi differenti, perchè mi sentivo ispirato in diversi fronti. Avevo un’idea ben precisa, quasi tutta da sviluppare, nel concetto jazz insieme agli Highfive Quintet, più un altro lavoro piuttosto funk da realizzare con gli Incognito, un discorso un po’ più pop da costruire con The Band, il gruppo che suona con me e, addirittura, un progetto nel cassetto piuttosto rock, in cui avrei sicuramente coinvolto Dodi Battaglia. Durante la messa in opera, ho fatto un po’ quello che si fa solitamente con il sugo (sorride, ndr). Sono partito con un sacco di ingredienti, tanto pomodoro e, man mano, lasciandolo cucinare, si è ristretto. Alla fine, però, il sapore mi è piaciuto, così l’ho voluto impiattare, sempre restando in ambito culinare».
E lo hai impattato alla tua maniera, perchè sei tornato ad abbracciare un certo tipo di sonorità che hanno caratterizzato i tuoi esordi. Considerando il titolo, possiamo in qualche modo affermare che, in un’epoca in cui va tanto di moda fingersi ciò che non siamo, la parola “dare” non si allontana così tanto dal concetto di “osare”?
«Credo che i due significati dello stesso termine, che in inglese e in italiano hanno una similitudine di scrittura, abbiano una grande coesione nella vita reale. “Dare” e “osare” sono due concetti vicini, perchè per offrire bisogna anche rischiare, mettersi in gioco. Mi è piaciuta questa idea di utilizzare una parola con la doppia valenza. Qualcosa che avevo già sperimentato con il mio disco di duetti “Two”, con “due” che in inglese vuole anche dire “dovuto”».
“Crederò” è un brano importante, un ispirato dialogo italo-inglese. Come sono nati questo pezzo e l’incontro con Il Volo?
«”Crederò” nasce inizialmente dalla collaborazione con Gianni Bella, uno degli ultimi brani che ha scritto prima di incorrere in questa sua malattia, questo ictus che purtroppo lo ha invalidato. Sono molto legato a lui, ho iniziato a muovere i miei primi passi nei suoi tour, a fare produzioni, a scrivere, a misurarmi in una certa maniera. Ha composto un brano sicuramente di matrice classica, ma con la sua solita vena blues. Con Il Volo, invece, è stato un incontro molto carino, perchè li ho conosciuti da bambini a “Ti lascio una canzone”, per poi incontrarli nuovamente da adulti.
Oggi hanno l’età dei miei figli più grandi. Continuano ad essere una bellissima promessa, portata a grandi livelli da quel furbone di Michele Torpedine, che li ha indirizzati e spinti in una maniera ottimale. E’ nata un’amicizia, una bella conoscenza, al di là del divario generazionale. Mi divertono un sacco, poi sono dei monellacci, soprattutto Ignazio, ma un po’ tutti. Gianluca è quello un po’ più moderato, l’Elvis Presley della situazione, mentre Piero sta cominciando a sfoggiare questa sua potenza lirica, in maniera sempre più densa».
Altro pezzo cantato in italiano è “Simili”, accompagnato dalla chitarra di Dodi Battaglia. Cosa ci racconti a riguardo?
«”L’albero nel mio giardino, lui cresce e non verserà una lacrima. Simili alla natura, noi voli incontrastati di pensiero”. E’ una canzone che ho scritto insieme ai Table alla fine degli anni ’90. Mi ero ripromesso di portarla alla luce, anche perchè uno degli elementi del gruppo, il fondatore Giovanni Cleis, una decina di anni fa ci ha lasciato. Ci tenevo e volevo fortemente fare questo regalo a un grande ispiratore della musica elettronica. Che dire di Dodi Battaglia? Uno dei migliori chitarristi al mondo, una bandiera importante per la nostra Italia. Una persona splendida, naturale, semplice, che ancora si mette in discussione e che si concede volentieri a me, dicendomi: “disponi di me come vuoi, in te ho piena fiducia”».
Mi incuriosisce parlare di ciò che ti porta in qualche modo a prediligere nel canto e nella scrittura la lingua inglese rispetto a quella italiana. Spiegaci un attimo bene il tuo pensiero a riguardo e, soprattutto, se è cambiato nel tempo…
«Guarda, io sono cresciuto a pane e musica, tutta la musica. A cominciare dai nostri cantautori degli anni ’70, con i quali ho avuto il piacere di collaborare. Da Renato Zero a Pino Daniele, passando per Claudio Baglioni e Ron, che ammiro in maniera spropositata. Però, ho sempre lavorato in ambiti internazionali. Di conseguenza, la lingua inglese è stata la mia arma vincente per interfacciarmi con il pubblico in giro per il mondo. Una sorta di passepartout che mi ha permesso di coltivare la mia vocazione, la mia attitudine per questo linguaggio. Fino a renderlo plausibile e abbastanza credibile, anche grazie alle collaborazioni realizzate con artisti del calibro di Burt Bacharach, Earth Wind Fire, Nick The Nightfly, Chaka Khan e Al Jarreau. Questo ha fatto sì che il mio inglese sia migliorato negli anni».
Per concludere, a proposito di insegnamenti, qual è la lezione più importante che senti di aver imparato dalla musica fino ad oggi?
«La musica è una compagna di vita che ti fa capire come devono essere le persone accanto a te: leali. La musica non ti tradisce. Il tuo corpo ti può tradire, un amico ti può tradire, una donna ti può tradire, ma la musica non sarà mai in grado di farlo. Le tue aspettative ti possono tradire, ma non la musica».
Nico Donvito
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