A tu per tu con il giovane cantautore torinese, fuori con il suo album d’esordio “Sindrome di Stendhal“
A meno di un anno di distanza dalla nostra precedente chiacchierata, ritroviamo con piacere Emanuele Aloia in occasione dell’uscita del progetto che segna il suo debutto discografico, intitolato “Sindrome di Stendhal“, rilasciato lo scorso 16 aprile. Citazioni artistiche e letterarie che ormai possiamo considerare un suo marchio di fabbrica, canzone dopo canzone. Tredici tracce in scaletta, tra cui spiccano i singoli “Girasoli“, “Il bacio di Klimt“, “L’urlo di Munch“ e “Notte stellata“. Una delle opere prime più interessanti e riuscite degli ultimi anni.
Ciao Emanuele, bentrovato. Partiamo da “Sindrome di Stendhal”, cosa hai voluto inserire in quello che, di fatto, è il tuo biglietto da visita musicale?
«Ho voluto portare me stesso, con tutti i miei pregi e i miei difetti, al di là di tutto il discorso legato alle citazioni, a questa mia caratteristica che si può trovare in diversi testi. Ho voluto raccontare di me, sono davvero soddisfatto del risultato e delle canzoni contenute all’interno di questo album».
Quali riflessioni e quali stati d’animo ti hanno accompagnato nella fase di scrittura di questo lavoro?
«Ho composto queste tracce nell’ultimo anno e mezzo, gran parte della fase di scrittura l’ho trascorsa in quaranta o semiquarantena, come per tutti. Inconsciamente questo periodo mi ha portato a produrre di meno, l’ispirazione naturalmente è diminuita, perchè tendenzialmente io scrivo quello che vivo e con questa situazione ho vissuto molto meno».
Hai dichiarato di aver selezionato queste tracce nell’archivio del tuo computer che ne conteneva circa un centinaio, un numero piuttosto ingente, con quale criterio sono state selezionate?
«Il criterio era quello di trovare un filo conduttore che legasse le canzoni. Poi, sai, ci sono pezzi che possono non arrivare subito, brani che magari necessitano più tempo per essere completati. Faccio un esempio: “Ipocrisia” e “Buongiorno principessa”, sono le uniche due tracce che non ho scritto nell’arco di questo anno e mezzo, bensì quando avevo diciassette anni. Con il mio producer Steve Tarta le abbiamo riprese e riarrangiate, probabilmente non erano uscite in precedenza perchè non era arrivato ancora il loro momento».
Per concludere, quali elementi e quali caratteristiche ti rendono orgoglioso di questo tuo album d’esordio?
«Sicuramente l’essere riuscito a trovare, a ventidue anni, una precisa identità sia sonora che concettuale. Lo considero indubbiamente un grande traguardo, oltre che un buon inizio, poi, il resto non ci è dato sapere (sorride, ndr)».
Nico Donvito
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