A tu per tu con l’ugola di Monfalcone, in uscita con il suo undicesimo album in studio intitolato “Ritorno al Futuro / Back to the Future“
Nozze d’argento con la musica per Elisa, a venticinque anni di distanza dalla pubblicazione del suo primo disco “Pipes & Flowers“, la cantautrice friulana ha scelto di festeggiare questo traguardo pubblicando “Ritorno al Futuro / Back to the Future”, un doppio album che contiene dodici pezzi in italiano e tredici in inglese, in uscita il 18 febbraio per Island Records. In tracklist, naturalmente, anche i due singoli apripista “Seta“ e “O forse sei tu“, quest’ultimo brano presentato in concorso a Sanremo 2022 e classificatosi al secondo posto.
Tanti gli artisti che hanno prestato il proprio contributo per questo progetto: da Jovanotti a Rkomi, passando per Giorgia, Elodie e Roshelle, le firme di Takagi & Ketra, Davide Petrella, Calcutta e Franco126, oltre alla presenza di affermati producer del calibro di Don Joe, Mace, Venerus, DRD, Michelangelo, Sixpm, Andrea Rigonat, Marz & Zef e Stevie Aiello. Il risultato? Venticinque tracce senza filtri, che mettono in risalto il pensiero, l’anima e la voce di una delle più spiccate sensibilità artistiche del nostro scenario musicale nazionale.
Ciao Elisa, benvenuta. Partiamo da “Ritorno al Futuro / Back to the Future”, come si è svolto il processo creativo e quali pensieri hanno ispirato questo tuo nuovo lavoro?
«In questi ultimi anni, durante la pandemia, certe cose sono diventate ancora più evidenti. Mi sembrava doveroso affrontare tematiche importanti che riguardassero sia aspetti sociali che ambientali. Il titolo di questo disco parte dall’idea di uno spettacolo dal vivo che avrei voluto realizzare. Alla fine del precedente tour già avevo immaginato questo live “Ritorno al futuro”: un concerto che fungesse da buona scusa per mettere al centro un nuovo metodo di sostenibilità, per cercare di spingere il più possibile in quella direzione. Mi ritengo una sognatrice e un’idealista, ma anche un’artigiana che ha voglia di sporcarsi le mani. Avendo due figli, sento molto il peso di questi temi, per questo avevo bisogno di raccontarli e di cantarli».
In che modo questi argomenti si riflettono nelle scelte sonore e nel sound così variopinto del disco?
«Il manifesto ideologico e i contenuti che ci sono dietro questo lavoro non hanno influito tantissimo sulle scelte produttive e sugli arrangiamenti, perché la musica non è razionale. Per quanto mi riguarda nasce sempre molto liberamente. E’ un po’ il contrario, nel senso che ho avvertito una forte necessità di esprimere certi concetti, un impulso che dovevo io stessa ancora decifrare, ma che sfociava in un certo tipo di musica, piuttosto che in un’altra direzione. Ogni canzone ha la sua storia. Non si tratta di un concept album, per questo motivo c’è stata totale libertà su qualsiasi tipo di scelta. Sin da subito non desideravo pormi limiti, etichette e confini. Se arrivava una base che mi piaceva, allora provavo a scriverci sopra, a prescindere dal genere. Così mi sono ritrovata a far convivere pezzi come “Fuckin’ believers”, “Like I want you” e “Fire”, che non c’entrano una mazza l’uno con l’altro, proprio perché lo trovavo giusto e sano, in linea con la mia visione di musica».
Quali pensi siano state le influenze predominanti e quali ascolti ti hanno ispirata negli ultimi tempi?
«Ho sempre cercato di allargare i miei ascolti, ma senza mai tradire i miei vecchi amori. Jeff Buckley e gli U2 sono ancora oggi per me dei riferimenti importanti, proprio come lo erano quando avevo sedici anni. Sicuramente avverto l’influenza di artisti anche più contemporanei come The Weeknd, Justin Bieber o James Blake, proprio perché affronto questo mestiere con la consapevolezza di un linguaggio che cambia. Ho assimilato talmente tanta musica nuova che mi è entrata dentro anche quella, proprio come quella vecchia che fa ormai parte del mio DNA. Per quanto riguarda i riferimenti italiani, invece, ho sempre ascoltato poco, sono davvero pochi gli artisti che ritengo incisivi e determinanti per la mia crescita, cito su tutti Mina e Lucio Battisti».
Cosa pensi dell’attuale situazione della musica italiana? Quest’anno al Festival insieme a te c’era sicuramente uno spaccato molto rappresentativo e di grande livello…
«Trovo l’attuale scena musicale italiana particolarmente bella. E’ stato un onore per me partecipare a questa edizione di Sanremo perché trovo che questo spaccato sia davvero in forma. Lo dico con orgoglio, da grande fan della musica. Anche dal punto di vista femminile. Trovo un sacco di ragazze che finalmente sono naturali, autonome e responsabilizzate, in prima linea con il loro progetto. Sono aderenti con la propria musica, fanno e dicono quello in cui credono. C’è molta creatività e molta libertà, i nostri producer sono cresciuti e c’è una grande ricerca culturale. Stimo molto Mahmood e considero Blanco un vero diamante. Rkomi è per me uno dei più bravi, la sua poetica è davvero importante e spiazzante».
Per concludere, la voce è sempre stato un elemento riconosciuto e riconoscibile del tuo percorso. Che ruolo ha in questo disco e in che termini pensi sia cambiato il tuo modo di interpretare in questi venticinque anni?
«Ho sempre avuto bisogno di lasciarmi andare sul canto. Il mio metodo è abbastanza particolare anche a livello testuale. Per un autore non è facile scrivere con me, perché non dico tutte le parole e non mi va quasi mai bene questo o l’altro. E’ come se avessi un mio immaginario, certe cose non le posso e non le voglio dire. Il canto è la mia anima, se la tradisco è come se stessi zitta, perché quello che esprimo a quel punto non vale niente. Se quel testo non mi rappresenta, allora vuol dire che è vuoto e non serve a niente cantarlo. Questo deve essere per me il ruolo della voce. Lo stesso che ha l’anima per il nostro organismo e non sento che sia poi così tanto diverso rispetto a quando ho iniziato».
Nico Donvito
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