A tu per tu con l’ispirato cantautore calabrese, fuori con il singolo “Il matto” che segna il suo atteso ritorno
Tempo di nuova musica per Emanuele Aceto, in arte Eman, lo ritroviamo in occasione dell’uscita de “Il matto“, inedito che segna il suo ritorno sulle scena musicale a tre anni di distanza dall’uscita del suo secondo omonimo disco. Il cantautore calabrese, questa volta, si mette nei panni di un uomo ai margini di una società in balia del consumismo, ritenuto da tutti un folle semplicemente perchè ha deciso di andare controcorrente e più lentamente rispetto alla frenesia dei tempi che corrono.
Ciao Ema, bentrovato. Partiamo da “Il matto”, un brano che affronta un tema importante, estremamente attuale. Da quali riflessioni è stato ispirato?
«Caratterialmente sono uno che ama guardare le cose in silenzio, in questi anni di pausa ho avuto molto più tempo per pensare e per osservare. Ho riflettuto molto su questo concetto, su come una persona che prova a vivere con semplicità e più lentamente possa essere considerato un folle. Il matto, oggi come oggi, è colui che prende la vita come dovrebbe essere. Non volevo ritornare con la classica ballad, bensì con un pezzo carico di speranza e con un pensiero alle spalle. Alla fine penso che il mio ruolo non sia solamente quello di sottolineare momenti malinconici e tristi, come magari potrebbe venire spontaneo dopo il periodo che abbiamo vissuto».
Che tipo di ricerca c’è stata dietro la ricerca del sound insieme al tuo direi fedele fedelissimo producer Mattia SKG Masciari?
«Ho sempre voglia di comunicare e di arrivare a più persone possibili, per questo abbiamo pensato a realizzare qualcosa che fosse più commestibile. Vorrei che chi ascoltasse il brano si soffermi sull’allegria del sound per poi iniziare a ragionare sul testo. Un concetto che ci riporta un po’ al cantautorato di Enzo Jannacci e Giorgio Gaber, ma anche alle produzioni del mio conterraneo Rino Gaetano. A questa età mi sono ritrovato a voler comunicare più cose possibili. Nei miei pezzi in passato c’era tantissimo di me, oggi forse c’è un po’ di meno, ma c’è tanto di altri, per far sì che chiunque possa rivedersi in ciò che scrivo e canto».
Hai citato tre maestri: Jannacci, Gaber e Gaetano. In un momento storico in cui la parola “artista” forse viene un po’ troppo abusata, per certi versi e in certi contesti è quasi diventata un sinonimo della parola cantante… quale significato attribuisci oggi al ruolo di artista?
«Per me l’artista non è l’intellettuale, ma la scheggia impazzita del mondo. Quella persona che dovrebbe farti vedere le cose sotto un’altra luce. A mio avviso noi siamo solamente un mezzo tra il mondo e le persone, attraverso l’arte comunichi delle cose che vedi. Penso che l’artista debba essere utile alla comunità e che un artista è tale quando non si adegua. Ammiro moltissimo chi sperimenta, chi resta se stesso e si mostra particolare rispetto al resto della scena. Non mi piace questa rincorsa al suono identico o questa rincorsa alla fama che vedo soprattutto tra i giovanissimi. L’artista è chi si estranea da tutto questo».
Per concludere, qual è la lezione più importante che senti di aver appreso dalla musica fino ad oggi?
«L’insegnamento più importante è che da solo non fai nulla e che la condivisione sta alla base. Personalmente ho raggiunto le mie quote più alte quando tutte le persone attorno a me erano convinte di poter arrivare ad un determinato risultato. I meriti si devono condividere con gli altri, perchè da soli non si va da nessuna parte».
Nico Donvito
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