A tu per tu con il popolare artista romano, in uscita con il suo primo album strumentale intitolato “Mojo“
Definirlo blusman sarebbe riduttivo, Alex Britti è un musicista sopraffino, un cantautore attento e innovativo. Lo ha dimostrato più volte nel corso della sua fortunata carriera e torna a ribadirlo con “Mojo“, il suo primo attesissimo lavoro strumentale, disponibile per It.Pop (con distribuzione Believe) a partire da venerdì 1° luglio. Nelle note, nei suoni e nelle intenzioni, l’artista romano ci hai messo tutta quanta la sua vita: i posti che ha visitato, le nozioni che ha inglobato e le esperienze che ha vissuto.
Ciao Alex, bentrovato. Partiamo da “Mojo”, come definiresti questo disco?
«Non saprei, sperimentale? Con il suono blues della chitarra che fa da minimo comune multiplo, però poi in realtà ci sono diverse sfaccettare. Tutto questo attraverso i generi che mi piacciono, che ascolto e che, in un modo o nell’altro, riaffiorano quando scrivo, quando compongo e quando suono».
Quali sono secondo te gli elementi caratterizzanti e rafforzativi che rendono unico questo lavoro?
«Senz’altro il modo di suonare la chitarra, con la quale mi piace addentrarmi in vari e nuovi territori. Uso sempre la solita chitarra, non la cambio mai. Mi piace passeggiare su più sentieri, assaggiare sapori diversi, viaggiare tra le tonalità e le sonorità, il tutto usando sempre la stessa chitarra. E’ un po’ come se fosse la mia clava, il mio bastone da combattimento (sorride, ndr)».
Viviamo in un’epoca di zone di comfort, dove ognuno si rifugia e ci costruisce sopra una bella villa con piscina. Cosa ti ha spinto a realizzare questo tipo di progetto in questo punto del tuo percorso?
«Forse perché la zona mia di comfort non è mai stata la stessa. Un artista ha sempre bisogno di rinnovarsi. Credo sia questo. Non avevo mai fatto un disco interamente strumentale, quindi mi sono detto “perché no?”. Ne ho avvertito semplicemente l’urgenza, il bisogno, la necessità».
A proposito della struttura di queste tracce strumentali, l’impressione è che tu non ti sia discostato molto dalla forma canzone a cui ci hai abituato negli anni, no?
«Questo non lo so, se lo faccio è del tutto involontario, di sicuro possiedo un animo pop. Ciò di cui mi sono reso conto è che “Mojo” non è un disco strumentale destinato solamente ai musicisti, forse perchè mantengo un tipo di fraseggio popolare. Alla fine, i temi principali delle tracce te li canti anche in macchina o sotto la doccia. Tutto questo è figlio del mio percorso, ma anche tipico di un jazz importante che sono solito ascoltare. Accade la stessa cosa con dei grandi classici di Miles Davis o di John Coltrane».
Trovo che in “Mojo” ci sia tanta anima, una magia che si ricollega poi al titolo stesso. Qual è l’elisir del tuo entusiasmo?
«Alla base c’è sicuramente l’amore per la musica, la passione per quello che faccio. Ancora adesso, dopo tanti anni che suono, mi capita di svegliarmi e fare colazione con la chitarra. C’è questa inesauribile forma di fermento che non finisce mai, che rappresenta per me un qualcosa di indescrivibile. Non saprei vivere senza. Sai, alla fine, la tecnica fine a se stessa non mi piace, cerco di alimentare sempre l’istinto».
“Mojo” è un disco che rimette al centro il linguaggio libero e universale del suono, perchè non esiste solo una narrazione fatta di parole. Dalle corde vocali alle corde della tua chitarra… per intenderci. Qual è l’aspetto che più ti ha affascinato di questa poetica delle note?
«Quando suoni è come se anche la parte strumentale contenesse le parole al suo interno. Oltre al titolo, c’è pure qualcos’altro, ma non me ne rendo conto fino alla fine. Quando realizzo il ritornello di alcuni pezzi, la sensazione è la stessa di quando canto, anche perché interpreto anche un suono e non soltanto il significato delle parole. E’ sempre musica. Per quanto mi riguarda, “Mojo” mi da la sensazione di essere un disco cantato piuttosto che strumentale».
Per concludere, se potessi tornare indietro cosa ti sentiresti di dire a quel ragazzino che all’età di otto anni si apprestava ad imparare a suonare la chitarra da autodidatta?
«Boh, non lo so. Forse: “combina meno danni”. Al ragazzino naturalmente, più che al musicista (sorride, ndr)».
E al musicista?
«Sai, ho sempre fatto cose che mi hanno divertito nel momento in cui mi andava di farle. Non rinnego nulla, ripeterei ogni singolo passo. Mi sembra che non posso lamentarmi. Quindi, con ogni probabilità, gli direi di fare le stesse identiche cose».
© foto di Fabrizio Cestari
Nico Donvito
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