Enzo Jannacci, il ricordo a dodici anni dalla scomparsa

Omaggio all’artista milanese, musicista surrealista dall’inconfondibile mimica e verve umoristica. Il nostro omaggio a Enzo Jannacci
Sono trascorsi dodici anni dalla scomparsa di Enzo Jannacci, geniale cantastorie che ha profondamente rivoluzionato il mondo della canzone d’autore italiana dal dopoguerra al nuovo millennio, uno dei padri fondatori del cabaret meneghino.
In oltre cinquant’anni di attività, ha dato libero sfogo a tutto il suo lato istrionico e ironico, componendo alcune pietre miliari del nostro cantautorato, da “El portava i scarp del tennis” a “Ti te se’ no”, passando per “Andava a Rogoredo”, “L’Armando”, “Vengo anch’io, no tu no”, “Ho visto un re”, “È la vita, la vita”, “Messico e nuvole”, “Ci vuole orecchio” e “Quelli che…”; collaborando con numerosi artisti di prestigio come Giorgio Gaber, Dario Fo, Cochi e Renato, Bruno Lauzi, Milva, Paolo Conte, Tullio De Piscopo, Pino Donaggio e molti altri.
Nato a Milano il 3 giugno del 1935, Enzo comincia a muovere i primi passi nella musica sin da giovanissimo, alternando gli studi classici al Conservatorio con l’Università, infatti, nel 1967 si laurea in medicina, per poi prendere la specializzazione in chirurgia. Dal punto di vista artistico, si avvicina alla musica rock da ragazzino, ispirato dal potere comunicativo che sprigionano insieme le note e le parole.
In un’epoca in cui se non cantavi l’amore eri considerato un emarginato, nei suoi pezzi Jannacci parla di emarginazione, dei lati oscuri e del disagio di una società distratta dal boom economico, ma che covava già i malesseri comuni di oggi. I suoi sono testi spiazzanti e stralunati, che non passano inosservati al pubblico più attento, letteralmente rapito dall’innovativa capacità linguistica ed emotiva, tra il pungente e lo struggente, perlopiù caratterizzata da versi in dialetto stretto milanese, intraducibili in qualsiasi altra lingua.
Tra i miei brani preferiti cito “Io e te” e “Niente domande”, più malinconici e melodici rispetto al suo repertorio scanzonato e apparentemente di matrice comica, ma sempre pregno di una certa valenza sociale, tra cui spicca il suo celebre cavallo di battaglia “Vengo anch’io, no tu no”, l’inno dell’esclusione per antonomasia, una canzonetta di rottura e di contenuto, altamente rappresentativa della sua poetica teatrale e controcorrente.
Nel corso degli anni ha calcato il palco dell’Ariston del Festival di Sanremo per sole quattro volte, nel 1989 con “Se me lo dicevi prima“, nel 1991 con “La fotografia” (vincitore del Premio della Critica), nel 1994 in coppia con Paolo Rossi ne “I soliti accordi” e nel 1998 con “Quando un musicista ride”.
Musicista surrealista, sempre sospeso a metà tra la riflessione e lo scherzo, per mezzo secolo Enzo Jannacci ha saputo raccontare uno spaccato silente della società, mediante una visione distorta e talvolta esagerata della realtà, quasi visionaria per l’epoca. Ascoltando quelle stesse canzoni, oggi, ci si rende conto in maniera tangibile della sua grandezza, del suo essere futurista, precursore dei tempi e del saper riconoscere un successo già dalle prime note perchè, come amava cantare lui, “bisogna avere orecchio”.
Questo e molto altro ancora è stato e sarà sempre Enzo Jannacci, un artista che ha saputo incentrare il suo intero percorso sulla parola mista alla gestualità e all’inconfondibile mimica, dando voce a tutto un mondo fino a quel momento silente e non rappresentato. Attraverso la musica ha fotografato la sua città, dall’Idroscalo a Rogoredo, passando per Piazza Beccaria, via Canonica, le rive del Naviglio, luoghi e paesaggi che fanno da sfondo alle sue intramontabili canzoni.