Il ricordo dell’artista genovese, autore de “Il nostro concerto”, “Arrivederci” e “La musica è finita”
“Di coraggio non si muore”, così si intitola l’ultimo album di inediti inciso da Umberto Bindi, pubblicato nel 1996, una frase che riassume in qualche modo la turbolenta vita del cantautore, che ha sempre dato sfoggio di una grande tenacia nell’affrontare momenti di difficoltà, imparando ad amministrare la propria emotività con la nobiltà d’animo tipica di un vero artista.
Nato a Bogliasco, in provincia di Genova, il 12 maggio del 1932, Bindi mostra la sua propensione alla musica classica sin da giovanissimo. In poco tempo diventa uno dei compositori più richiesti, insieme al paroliere Giorgio Calabrese realizza, tra il 1959 e il 1960, due autentici brani memorabili: “Arrivederci” e “Il nostro concerto”. L’anno seguente esordisce al Festival di Sanremo 1961 in coppia con Miranda Martino, sulle note del brano “Non mi dire chi sei”, classificandosi undicesimo. Per la nota kermesse canora scrive numerosi pezzi, da “I trulli di Alberobello” per Aurelio Fierro a “Passo su passo” per Claudio Villa, passando a “E’ vero” per Mina, “Per vivere” per Iva Zanicchi e “La musica è finita“ per Ornella Vanoni.
Rispetto alla sua prima partecipazione in gara, tornerà in riviera per la seconda e ultima volta ben trentacinque anni dopo, nel corso di Sanremo 1996 presentando il brano “Letti” in compagnia dei New Trolls, scritto a quattro mani con l’amico Renato Zero. Elegante e raffinato, lo ricordiamo come uno dei nostri compositori più importanti, che ha condizionato il mondo della musica leggera, al pari di Bruno Martino e Lucio Battisti.
Quando si parla della scuola genovese si fa riferimento a Luigi Tenco, Bruno Lauzi, Gino Paoli e Fabrizio De Andrè, ma ci si dimentica spesso di un poeta delle note del suo calibro, autore di canzoni che hanno fatto il giro del mondo e profondamente segnato gli anni ‘6o e ’70, una fra tutte: “Il mio mondo”, tradotta in inglese, in francese, in spagnolo e rivisitata ancora oggi da numerosi interpreti.
Il nostro è un Paese che non ha memoria, che tende a dimenticare e ad emarginare con estrema facilità. Umberto Bindi, infatti, è stato a lungo discriminato per la sua omosessualità, allontanato dalle scene nonostante l’immenso talento. Personaggio schivo e generoso, è rimasto a lungo nell’ombra, per tanti e troppi anni, al punto da chiedersi chissà quali altri capolavori avrebbe composto se solo non fosse stato bersaglio di una così becera ignoranza.
«Io sono solo un cantautore abbastanza famoso che è rimasto senza soldi e senza salute – afferma nella sua ultima intervista rilasciata nell’aprile 2002 al Corriere della Sera – senza soldi sicuramente per colpa mia. Perché sono una cicala, non una formica». Problemi col fisco e problemi cardiaci, da tempo conviveva con quattro bypass, oltre a disfunzioni varie ai reni e al fegato.
L’amico Gino Paoli lancia un appello affinché gli vengano concessi i benefici della legge Bacchelli a sostegno degli artisti, per le cure necessarie. Più che l’elemosina, l’artista ha più volte espresso il desiderio di un concerto realizzato assieme agli amici e cantanti ai quali ha donato le sue opere musicali, ma non c’è stato il tempo, la sera del 23 maggio 2002 ci lascia, all’età di settant’anni.
Voce malinconica, vibrante e sognante, Umberto Bindi è stato un uomo fragile, che ha sopportato per anni il peso delle derisioni e delle umiliazioni, per poi finire nel dimenticatoio anche dopo la sua morte, moralmente abbandonato una seconda volta. Una gigantesca ingiustizia, che ha colpito uno dei cantautori più preparati musicalmente, un Maestro. Così come per Mia Martini, la sua vita è stata segnata dal pregiudizio, una storia incredibile quanto disonesta che, magari, un giorno qualcuno si degnerà di raccontare e tramandare alle nuove generazioni.
Nico Donvito
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