A tu per tu con la cantante siciliana di origine e veneta di adozione, in occasione dell’uscita del suo ultimo singolo uscito lo scorso 6 settembre per Ponderosa Music Records, distribuito da Believe
Si intitola “Ti ho vista ieri” il nuovo brano scritto e interpretato della cantautrice Patrizia Laquidara. Si tratta dell’evoluzione in suono del suo omonimo romanzo d’esordio, edito da Neri Pozza. Vissuti che diventano parole, racconti che diventano musica. Approfondiamo con la stessa artista l’evoluzione di questo suo nuovo progetto.
Come si è sviluppato il processo creativo di “Ti ho vista ieri“?
«Tutto è partito dai racconti che mi ritrovavo come se fossero già stati scritti e che sono poi diventati un romanzo. Li ho legati tra loro, come se tirassi un filo. Ho scritto questo libro in circa tre anni, poi mi sono resa conto che non poteva finire lì. Presentando il volume in giro per l’Italia, mi sono ritrovata a pensare che dentro quel grande racconto c’erano così tante storie, così tante personaggi, che forse era proprio quello il bacino da cui prendere le mie nuove canzoni, attingendo sia da una memoria collettiva che da una memoria personale. È arrivato così il primo singolo “Assabenerica”, che prende spunto da un’antica processione che si tiene ogni 15 di agosto a Messina. Poi è arrivato questo secondo singolo che prende il nome dal romanzo e che prende spunto dal nucleo fondante del racconto, che sono queste figure femminili che ho conosciuto, ma anche figure femminili che non ho conosciuto, perché fanno parte del mio albero genealogico. Insomma, un viaggio nella storia mia e nella storia di altri».
In questo brano ci sono le tue radici siciliane, c’è il dialetto, ma c’è anche parte del tuo background musicale, se vogliamo anche un tocco di De Andrè, ma soprattutto c’è un sound che abbraccia l’elettronica contemporanea. Come ti sei approcciata a questo sound?
«È stato un approccio molto naturale, perché la canzone è nata già con quel suono. Cioè, io la sentivo esattamente con quel suono, quindi non ho fatto altro che andare in studio a Lisbona e scegliere come arrangiatore Gabriel Faria. Lavorare con lui è stato facile, tutto è arrivato in modo molto naturale. Lui è riuscito a ricreare il suono che avevo in testa, quello che poi è diventato il ritornello strumentale della canzone. Lui ha voluto inserire dei suoni più contemporanei ed elettronici, gli stessi che anche nel mio live vorrei riproporre, accompagnandomi da un un musicista che maneggia bene l’elettronica».
Hai definito questo pezzo come un canto corale di scongiuro a cui ognuno può aggiungere la propria voce per esorcizzare il male. Mi piace questa visione di una memoria collettiva, che non si riflette in problemi personali, ma globali.Per cui ti chiedo, secondo te, quali sono i mali più urgenti da esorcizzare nella società di oggi?
«Partirei dalla semplificazione, cioè dobbiamo renderci conto che la vita è molto complessa e ostinarci a non voler vedere questa complessità ci porta a semplificare e, di conseguenza, a creare grandi guai. Poi direi anche la disumanizzazione, ma credo che sia tutto riconducibile al capitalismo, inteso come qualcosa che cresce a dismisura e a cui non sappiamo dare un limite. Credo che il capitalismo feroce, come lo stiamo vivendo noi, sia un tumore devastante, perché da qualsiasi punto guardiamo le problematiche sono sempre da ricondurre a questa ostentazione figlia di preoccupante semplificazione della realtà».
Per concludere, qual è l’insegnamento più importante che pensi di aver appreso dalla musica fino ad oggi?
«A volte l’ho messa da parte la musica, a volte ho anche pensato fosse la causa di tutti i miei mali e, altre volte, l’ho rinnegata. Un po’ come tutte le cose che amiamo e che ci fanno rinunciare a qualcos’altro e io credo di aver rinunciato a tanto per la musica, lei in cambio mi ha dato la possibilità di esprimermi, di parlare e di arrivare al pubblico. Mi ha dato la possibilità di condividere quando sono sul palco con i musicisti, di imparare a stare sul tempo».
Nico Donvito
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