sabato 23 Novembre 2024

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Paolo Antonacci: “Fare l’autore è il mio modo per far parlare la musica” – INTERVISTA

Intervista al giovanissimo e novizio autore

E’ alla sua prima intervista in carriera il giovane Paolo Antonacci e ciò che gli preme di più è parlare di musica, la sua musica. Ed ha ragione perchè per scrivere canzoni non importa chi si è ma conta come suonano le note che si scrivono sugli spartiti insieme alle parole che si scelgono tra quelle del cuore. Abbiamo, quindi, provato a raccontare le canzoni, le sue canzoni, quelle scritte e donate da subito a grandi nomi della musica italiana (Eros Ramazzotti, Alessandra Amoroso, Irama e Annalisa). Ecco cosa ne è risultato:

Partiamo dalla fine, per una volta, e quindi partiamo dall’ultima tua canzone pubblicata: “Due volontà”, un brano cantato da Eros Ramazzotti e da pochi giorni rilasciato insieme all’album “Vita ce n’è”.

<<E’ una canzone che ho scritto con Placido Salomone e, in realtà, è uno dei primissimi brani che ho scritto quando ancora non avevo alcun contratto di edizione e scrivevo le mie canzoni in cantina. Ho portato questo pezzo ad Eros ormai due anni fa e lui è stato il primissimo a credere in un mio brano e a volerlo cantare. A 21 anni mi ero trasferito a Milano e sognavo di fare musica anche se, in qualche modo, avevo il sentore di dover abbandonare perchè non vedevo luce per me e le mie canzoni. Non sapevo come dare spazio a questi brani e non conoscevo il sottobosco del mondo degli autori. Un giorno ho fatto sentire questo brano ad Eros e lui mi ha detto che lo voleva per il suo nuovo disco. Pensa che questo stesso brano io lo avevo già fatto girare un bel po’ e mi era già stato opzionato da un altro artista ma sentirlo cantare da Eros mi ha cambiato la vita>>.

Cosa vuol dire essere autori a 23 anni, un’età in cui, di solito, si mira ad apparire ed esporsi più che stare dietro alle quinte?

<<Hai ragione, tant’è che moltissimi autori con i quali oggi collaboro hanno fatto il percorso contrario: dopo aver tentato di metterci la faccia in prima persona, in molti adottano il “piano B” dell’autorato. Io ho scelto di partire direttamente con il fare l’autore perchè vedo tutto ciò come una forma “meritocratica” di fare musica nel senso che personalmente mi porto dietro un cognome importante che mi caricava di tutta una serie di responsabilità e, contemporaneamente, di sbattimenti. Ho deciso di andare oltre a tutto ciò per far parlare la musica e i modi che avevo erano essenzialmente due: cantare con un nome fittizio oppure fare l’autore restando dietro le quinte. Ho scelto questa seconda possibilità che mi ha fornito uno scudo: un modo di mettere davanti a me, alla mia faccia e al mio cognome le mie canzoni>>.

Alla fine dei conti le canzoni vengono prese perché son belle o perché convincono e, in qualche modo, appartengono anche all’interprete che si appresta a cantarle. Poco importa il nome che porta con sé chi le ha scritte: è sicuramente un valore in più ma non può essere quello determinante…

<<Una cosa che tengo a dire è che, fortunatamente, alcune canzoni non me le prendono ed è giusto che sia così perché il “gioco” è questo. Non c’è niente di banale o di sicuro: è per questo che faccio l’autore. E’ bello, mi piace questo modo di fare e lavorare: è la forma più meritocratica di fare musica, soprattutto per un ragazzo come me>>.

Come sei riuscito a fare il grande salto verso il contratto di edizione?

<<Io sono figlio di cantautore quindi in casa mia non esisteva nemmeno il concetto di “mi arrivano i pezzi”. Ho scoperto questo mondo tramite Placido Salomone che, mentre stavo preparando un disco mio, mi ha suggerito di provare a scrivere per qualcun altro. Ho avuto la fortuna di firmare un contratto di edizione abbastanza in fretta con Stefano Clessi della Ecltic/Curci>>.

Come mai hai scelto proprio questa etichetta di edizioni?

<<Quando nell’ambiente è iniziata a spargersi la voce che scrivevo canzoni hanno iniziato ad arrivare un sacco di richieste per ascoltare i miei brani o per avviare collaborazioni editoriali. Le richieste arrivavano a mio zio, il manager di mio padre. Tutti pensavo che anche io fossi gestito da lui. Io, invece, attraversavo un periodo di ribellione, motivo per il quale nemmeno consideravo tutte quelle richieste e non mi presentavo ai vari appuntamenti. Volevo far capire da subito che avevo una strada mia. Stefano Clessi, invece, mi ha scritto personalmente su Facebook e, per questo motivo, ho deciso di firmare un contratto con lui: è stato l’unico che ha cercato me, ha cercato Paolo senza filtri>>.

Non credi anche tu che i giovani d’oggi in molti casi cerchino di trovare la propria strada ed il proprio posto nel mondo solo attraverso le proprie forze e, spesso e volentieri, con dei modi rivoluzionari e del tutto opposti da quelli usati dai propri genitori?

<<Personalmente il mio sogno era l’indipendenza non solo economica ma anche nel senso più ampio delle accezioni. E’ per questo che avevo assunto questa linea di grande rottura rispetto a ciò che mi circondava. Io mi auguro che i giovani abbiano davvero tutta questa voglia di staccarsi dal proprio passato e affermarsi per quello che sono: sarebbe un desiderio sacrosanto. Purtroppo, però, vedo tantissimi giovani d’oggi impegnati ad ostentare ciò che sono e ciò che hanno. Ci sono ancora troppi “figli di…” che funzionano in quanto “figli di…” e questa cosa mi disturba non poco. Mi fa arrabbiare chi è sereno nell’essere portabandiera di qualcosa che è già successo>>.

Cosa ne pensi dei figli d’arte visto che li hai in qualche modo citati?

<<Secondo me dobbiamo tutti ricordarci che il figlio d’arte vive una situazione molto complicata: la reputo sempre una “categoria non tutelata”. Fondamentalmente il figlio d’arte già in famiglia vive un complesso mica di poco conto: cresce all’ombra di qualcosa di grande, di troppo grande. C’è un brano di Caparezza che si chiama “Figli d’arte” che racconta benissimo questa situazione devastante che, poi, come se non bastasse, si allarga nel contesto extra-familiare dove qualsiasi persona si incontri mette in atto una depersonalizzazione che va a disconoscere ogni propria caratteristica a favore di quelle genitoriali>>.

Prima raccontavi che vieni dal rap e da YouTube. Cosa ne pensi della musica d’oggi, del rap, della trap, dell’indie?

<<Mi piace molto, sono appassionato di tutte le nuove cose musicali che accadono e, alcune volte, penso che mi piacerebbe sperimentare e scrivere con qualcuno che viene da questi nuovi mondi. Il pop italiano oggi è in difficoltà, è innegabile. Ed è in difficoltà per un motivo molto semplice: il registro linguistico, le parole utilizzate nelle canzoni pop italiane negli ultimi 20 anni si è allontanato violentemente dai giovani>>.

A tal proposito proviamo fare una domanda alla Marzullo: è il linguaggio delle canzoni che si è allontanato dall’attualità oppure è il linguaggio dei giovani che si è attualizzato?

<<Bella domanda! E’ un punto su cui interrogarsi sicuramente. L’avvento di internet permette di attingere molto velocemente alla sottocultura musicale che Spotify rende estremamente più accessibile rispetto a quando la musica si trovava solo nei negozi di dischi. Il pop italiano, secondo me, è rimasto attaccato al modello di un buonismo testuale assoluto e di eterne ninne nanne musicali. Per un diciassette d’oggi il pop classico italiano è una roba d’antiquariato che, però, risulta addirittura kitsch, banale. Almeno fosse vintage conservando del gusto. E, invece, no il pop italiano è kitsch, senza gusto e con una dose di vecchiume malsano che non accenna a fermarsi. Tanti esperimenti che oggi si fanno per sembrare più giovani finiscono ancora peggio. Poi nasce un altro problema ma è un altro discorso…>>.

Cioè?

<<Cioè il fatto che spesso si tende a lavorare su artisti che non vengono dal pop in modo spudoratamente pop e questo snatura e svilisce la musica. Ancora, in Italia, deve arrivare quell’artista che, nonostante il successo, riesce a mantenere quel registro musicale che l’ha portato alla ribalta. Forse Calcutta ce la può fare. Per ora, però, vedo solo tanta gente molto interessante che non vede l’ora di giocare nel campionato del pop che, per definizione, è una categoria assolutamente diversa. Faccio il primo esempio che mi viene in testa: il rap in TV perde di potenza e di capacità comunicativa, i suoi interpreti diventano macchiette e del senso di rottura non rimane più nulla>>.

Sono assolutamente d’accordo. E’ un qualcosa che fa del male a tutti tra l’altro: alle nuove leve che si “svendono” per diventare popolari e a chi da sempre è pop e che ora si trova a scimmiottare le nuove tendenze per continuare a piacere ad un pubblico diverso dal proprio di riferimento.

<<Bravissimo! E’ una cosa terribile. Basta vedere quanti grandi artisti del pop italiano stiano cercando di svecchiarsi chiedendo i brani ai giovani cantautori provenienti dall’indie. Questa cosa, però, è un qualcosa che bisogna dosare davvero con le gocce perchè è davvero pericoloso>>.

Mi piacerebbe concludere questa nostra chiacchierata con un verso di una tua canzone, “Dov’è che si va”, cantata da Annalisa in cui dici: “non sai com’è normale sentirsi diversi, tormentati ma meravigliosi”. Ecco, secondo me e secondo quello che sono riuscito a capire di te, è forse il verso che più ti rappresenta e ti racconta in questo momento della tua vita.

<<Il disattendere sempre gli altri è il mio motto: mi fa molto divertire>>.

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Ilario Luisetto

Creatore e direttore di "Recensiamo Musica" dal 2012. Sanremo ed il pop (esclusivamente ed orgogliosamente italiano) sono casa mia. Mia Martini è nel mio cuore sopra ogni altra/o ma sono alla costante ricerca di nuove grandi voci. Nostalgico e sognatore amo tutto quello che nella musica è vero. Meno quello che è costruito anche se perfetto. Meglio essere che apparire.