A tu per tu con il cantautore romano, pronto a lanciare il suo decimo progetto discografico “Figli di nessuno“
Si è sempre sentito un ribelle Fabrizio Moro, un combattente che con la sua musica ha rivoluzionato e portato alta la bandiera del cantautorato in questo inizio del nuovo millennio. Un reduce e un sognatore, come emerge prepotentemente tra le righe della sua ultima fatica discografica “Figli di nessuno”, anticipata dal singolo “Ho bisogno di credere“. A un anno di distanza dalla vittoria del Festival di Sanremo in coppia con Ermal Meta al grido di “Non mi avete fatto niente” e a due anni dal suo precedente progetto “Pace“, il cantautore romano torna a farsi sentire con la sua timbrica inconfondibile e il proprio penetrante stile di scrittura, sempre attento e mirato a suggerire input, smuovendo qualsivoglia tipo di riflessione.
Ciao Fabrizio, partiamo da “Figli di nessuno”, il tuo decimo album di inediti, a chi si rivolge questo titolo?
«Ci sono persone destinate a lottare più di altre, i figli di nessuno sono coloro i quali non hanno avuto una vita semplice, quelli che sono abbandonati a se stessi, a prescindere dai risultati che si possono ottenere, dal riuscire a farcela o meno. Questo disco parla di tutti i combattenti che ogni giorno affrontano una nuova sfida, al di là di dove arrivano. Anch’io appartengo a questa categoria e ne sono orgoglioso perché, all’età di quarantaquattro anni, non devo dire grazie a nessuno».
Quali sono le tematiche predominanti e che tipo di sonorità hai scelto per esprimerle al meglio?
«Trovo che in questo disco ci siamo molti colori, più che in altri miei precedenti lavori, non ho cercato l’omogeneità, non ci sono state influenze esterne, l’intero album è stato prodotto insieme ai miei musicisti: il mio chitarrista arriva dal jazz, il mio batterista dall’heavy metal e il mio bassista dal funky, di conseguenza ci sono una serie di influenze musicali che si sono fuse tra loro.
Le tematiche sono diverse e tra le più disparate, “Filo d’erba” è stata scritta per mio figlio Libero, vedere riflessi nei suoi occhi gli errori e tutta la sofferenza che abbiamo provocato io e sua madre mi ha letteralmente logorato l’anima. E’ un pezzo che ho scritto tutto d’un fiato, ritrovo in lui tante fragilità che io stesso avvertivo alla sua età, con la differenza di essere arrivato alla consapevolezza di riconoscermi responsabile del suo dolore, questa è una cosa che mi ha devastato parecchio, così è nata questa canzone.
In “Arresto cardiaco”, invece, cerco di ironizzare su una delle poche cose che mi fanno veramente paura: ammalarmi. L’ipocondria ho imparato a gestirla meglio rispetto al passato, gli attacchi di panico non ce li ho più, anche se in qualche occasione di maggiore stress avverto ancora qualche turbolenza, il segreto è cercare di scherzarci sopra come ho fatto con questo pezzo. La vena polemica è un aspetto che mi ha sempre contraddistinto e che riporto nel brano “Non mi sta bene niente”, per me molto rappresentativo.
La matrice iniziale di “Ho bisogno di credere” è stata espressa pensando a Dio, io sono molto credente, la fede mi ha spesso aiutato nei momenti di difficoltà, ma può essere declinata anche non in ambito religioso, ad esempio intesa come in fiducia nel prossimo o in qualsiasi altra cosa. Mi reputo un ottimista di natura, mi sveglio la mattina e so già che domani sarà un giorno migliore, è sempre stato così, altrimenti non avrei mai potuto fare questo mestiere».
“Se sono così forte lo devo solo al mio passato” canti nel singolo apripista “Ho bisogno di credere”. Come sei arrivato a questa nuova consapevolezza?
«Credo che il passato condizioni un po’ tutti, perché ciò che siamo oggi è il riflesso di quello che eravamo. Infatti, le cose che ho vissuto nella mia adolescenza sono spesso raccontate nelle mie canzoni, ad esempio la rabbia del marciapiede è un aspetto ormai viscerale che mi appartiene, anche se oggi mi reputo una persona molto più riflessiva ed equilibrata, sono padre di due bambini, l’impulso e l’approccio alle cose è diverso, ma l’odore della strada me lo porterò dietro per sempre».
Personalmente mi ha emotivamente folgorato “Me ‘nnamoravo de te”, nel testo ripercorri gli ultimi cinquant’anni della nostra Repubblica. Superata la prima fase dell’innamoramento, come descriveresti oggi la tua relazione con l’Italia?
«Questa canzone mi è stata ispirata dal film “La mafia uccide solo d’estate” di Pif, mi è molto piaciuto il punto di vista utilizzato dal regista, ossia raccontare la parte più cruda della storia italiana attraverso gli occhi di due bambini che si innamorano. Nelle strofe di questo pezzo racconto gli avvenimenti che più mi hanno segnato, i personaggi che ho ammirato al di là della fede politica, mentre nel ritornello ripeto ad oltranza tutto il mio sentimento nei confronti di questo Paese.
La cosa che più mi addolora di oggi è vedere tanti giovani che non riescono ad affermarsi, il nostro Paese è un posto molto complicato dove esprimere il talento, vedere un ragazzo di vent’anni che si ritrova costretto ad andare all’estero mi fa molto soffrire, perché penso e ho paura per i miei figli. Ho sempre visto l’Italia come una bella donna tradita dal suo uomo, di cui noi stessi non siamo stati capaci di prenderci cura. Continuo ad amare la mia terra con tutta l’anima, nonostante le difficoltà che ho incontrato e che vedo attorno a me, non riesco ad odiare questo posto».
In questo disco infondi grande speranza e fiducia, cosa ti senti di dire ai giovani demoralizzati che si rassegnano a tutto ciò che accade e non trovano la forza di reagire?
«Che la forza sta nelle loro mani e nel loro intento, in un momento storico così vuoto i ragazzi dovrebbero capire l’importanza dello scendere in piazza, manifestando i propri pensieri e le loro prospettive. In realtà, questo è un aspetto che non è mai appartenuto alla cultura di noi italiani, l’idea di collettività, stare insieme per difendere un ideale. Non è come in Francia, che per qualsiasi ingiustizia sono pronti a protestare dimostrando il proprio dissenso, onestamente credo sia giusto fare così, mi reputo un rivoluzionario dentro, sono così di natura, mi sono sempre ribellato a tutto quello che non mi stava bene e, forse, proprio per questo motivo ho rallentato molto la mia carriera».
A proposito di rivoluzione e di Francia, mi servi su un piatto d’argento la prossima domanda: com’è nato il duetto con Cristina D’Avena sulle note de “Il tulipano nero”?
«Lei l’ho sempre amata sin da piccolo, ma amata proprio esteticamente, sessualmente parlando, mi faceva sesso. Quando mi ha chiamato per partecipare al suo disco sono letteralmente impazzito, il brano lo ha scelto lei, perché Cristina è un grande produttore, non è soltanto quella che canta le canzoni dei cartoni animati, di musica ne capisce ed è molto brava anche dal vivo. Appena mi ha inviato il brano l’ho cantato a casa mia improvvisando la parte finale, gli e l’ho rigirato e le è piaciuto subito tantissimo».
Il destino ha voluto che la tua strada e quella di Ultimo si incrociassero ancora una volta, dopo la vittoria congiunta a Sanremo nelle due diverse categorie lo scorso anno, vi ritrovate ad uscire con un nuovo lavoro ad una settimana di distanza l’uno dall’altro. Vi siete sentiti ed ascoltati a vicenda?
«Ci siamo dati più volte appuntamento a casa mia, perché lui ancora se la deve comprare (ride, ndr), ma non ce l’abbiamo ancora fatta a vederci perché entrambi siamo stati impegnati nella produzione e ora nella promozione dei nostri rispettivi progetti, ma ci sentiamo spesso per telefono, promettendoci ogni volta di vederci per ascoltarli insieme. Comunque sia, ho prestato attenzione a qualche suo nuovo pezzo e devo dire che mi piace sempre tanto, ci vogliamo davvero un sacco di bene».
Oggi la musica viene concepita in maniera diversa, alcuni progetti vengono realizzati precipitosamente nel giro di qualche settimana. Questo aspetto, secondo te, sta portando un po’ ad una “deriva dei contenuti”?
«Ogni volta che lavoriamo in studio lo facciamo pensando al live, l’ottica e l’istinto sono quelli da sempre. Oggi si fanno i dischi con il computer, con delle produzioni che nulla hanno a che fare con la musica vera, non è una questione di età ma di oggettività, le mode sono una cosa, mentre la deriva un’altra. Prima di iniziare a scrivere canzoni ho imparato a suonare il pianoforte, la chitarra, il basso e la batteria, in pratica i dischi me li potrei pure fare da solo. Mi sento un pazzo quando vedo un ragazzino che realizza un album nella sua cameretta, suonando in maniera piuttosto indecente, ottenendo dei numeri importanti e coinvolgendo un’intera generazione. Non possiamo cancellare cento anni di cultura e di storia musicale italiana, è come un pittore che butta l’olio su una tela bianca e dice che è un capolavoro, allora chi ha dipinto la Cappella Sistina chi era? Un cretino?».
Nico Donvito
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