A tu per tu con il talentuoso cantautore calabrese, in uscita con il suo nuovo album “Ex Voto“
Arriva dritto al cuore delle persone Antonio Aiello, in arte semplicemente Aiello, artista classe ’85 che fa della potenza comunicativa il fiore all’occhiello della propria musica. Si intitola “Ex Voto” l’atteso nuovo progetto discografico, disponibile per Sony Music a partire dal 27 settembre, anticipato dai singoli “Arsenico” e “La mia ultima storia” (qui la nostra recensione), brani che hanno entrambi ottenuto numeri importanti, riuscendo nel difficile compito di mettere d’accordo sia il parere del pubblico che quello della critica. Otto gli inediti presenti in scaletta, tra cui un feat. con Tormento, pezzi che sperimentano uno stile inedito per il nostro Paese, mescolando generi come l’indie, il soul e il pop. Approfondiamo la sua conoscenza.
Ciao Antonio, benvenuto su RecensiamoMusica. Partiamo dal tuo nuovo album “Ex Voto“, quali tematiche e quali sonorità hai voluto abbracciare?
«Diciamo che il fil rouge tematico del disco è l’amore, un argomento a volte sottovalutato, ma non c’è nulla di banale, di scontato o di poco potente attorno a questo sentimento. Per me la canzone impegnata è quella che parla d’amore, cosa c’è di più politico o sociale dell’incontro e della convivenza tra persone? “Ex Voto” è sicuramente un mix, l’ho vissuta come un’occasione per sperimentare e provare a fare qualcosa di diverso. Nel mio percorso ho avuto momenti in cui mi sono avvicinato all’indie, al soul e al pop, così ho deciso di unire questi tre colori musicali per cercare di trovare un pantone nuovo, un pantone Aiello. Ho cominciato a lavorare a questi pezzi per me, non pensavo minimamente che sarebbe potuto accadere tutto questo, l’ho fatto affinché mio nipote Emilio potesse un giorno avere tra le mani un disco di zio Totò (sorride, ndr). Ad un certo punto, però, magicamente è successo quello che è successo».
E così sono arrivate “Arsenico” e “La mia ultima storia”, i due singoli che hanno anticipato l’uscita di questo lavoro, due pezzi che hanno colpito per l’originalità e il carisma espressi attraverso la tua vocalità e il modo di scrivere. Che effetto fa essere considerato un po’ come il salvatore della musica italiana? Perché, effettivamente, intorno al tuo progetto c’è un forte hype…
«Esagerato (ride, ndr), beh è lo stesso tipo di hype che mi ha preoccupato quando sono uscite le date dei due live, che poi sono state miracolosamente e splendidamente sold out, ma non ti nascondo che in me la paura di non riempire c’era, perché una cosa sono i numeri digitali, un’altra le persone che effettivamente acquistano un biglietto per venirti ad ascoltare dal vivo. Per rispondere alla tua domanda, sicuramente sento una splendida attenzione intorno, c’è un’aspettativa verso questo progetto che, da utente, non sentivo dai tempi di Tiziano Ferro, quando si sentiva parlare di questa grande novità. Francamente era quello che speravo, più che il successo ho sempre sognato un’occasione di questo genere, di qualità, provando a proporre qualcosa che non si era ancora fatto prima. Questo tipo di attenzione e di considerazione, a tratti mi manda fuori di testa dalla gioia, a tratti mi dà un minimo di ansia da prestazione. Il secondo singolo è stato un bel banco di prova, mi ha dato le conferme di cui avevo bisogno, perché le persone che si sono riconosciute in “Arsenico” hanno trovato ne “La mia ultima storia” l’abbraccio di cui avevano bisogno».
Quale credi sia la forza di questi pezzi? O più in generale, quali sono secondo te i fattori che determinano oggi il successo di una canzone?
«La verità, l’autenticità del progetto, se và di moda il giallo e ti vesti di giallo non andrai da nessuna parte. O hai la fortuna di indossarlo prima degli altri, oppure punta al giallo ocra o al giallo senape, se proprio non vuoi andare sull’arancione o sul rosso. Il segreto è trovare una chiave di lettura tua, seguire le mode è una cosa pericolosa, non puoi starne completamente fuori, ma l’esercizio è cercare di tirare fuori il più possibile te stesso e qualcosa di nuovo. Avere una visione, cercare di vedere oltre l’apparenza, non fermarsi a quello che vedono gli altri, proporre una chiave di lettura che sia più personale possibile. Questo distingue una proposta artistica, che sia un quadro, un piatto o una canzone.
Quello che più è importante per me è la potenza comunicativa, non mi piacciono le etichette, vorrei che il pubblico si affezionasse alla mia voce e al mio modo di scrivere, a prescindere dal genere che faccio. Non mi và di rinchiudermi in una categoria, non sono un fascicolo, non mi piazzi su uno scaffale e non mi chiudi in una scatola. La mia evoluzione musicale mi ha portato, oggi, a sentirmi libero di sperimentare su più fronti, la mia visione di musica è totalmente trasversale».
Cosentino di nascita, romano di adozione. Quanto hanno influito le radici, la tua terra nel tuo percorso e, di conseguenza, nella tua musica?
«Tantissimo, sono un meridionale doc, orgogliosamente un calabrese, che ha lasciato la sua terra per evidenti ragioni di ricerca di opportunità perché, come tutti i sud del mondo, parliamo di posti bellissimi ma con grossi limiti. Guai a chi non riconosce nel mio modo di parlare e di fare il meridione, sono orgoglioso del posto in cui sono nato, io sono questo grazie alla mia terra, la mia visione di bellezza è frutto di una cultura che è nel mio sangue, anche la voglia di fare e di non arrendersi è tipica degli abitanti del sud».
Argomento Sanremo, sfatiamolo subito: ti piacerebbe calcare il palco dell’Ariston? Rientra tra i tuoi piani?
«Non è nei miei piani, lo vedrò da casa comodamente sul divano, non vedo l’ora, perché anche per me Sanremo è Sanremo. Nel 2011 ci avevo provato, l’ho sfiorato, voleva dire che non era arrivato il momento, ringrazio quel no. A meno che non sarò a suonare o all’estero, credo che farò il classico gruppo di ascolto con gli amici, quello che posso dirti è che il prossimo anno non ci sarò. Non la considero una tappa obbligatoria nella carriera di un artista, ma neanche una che escludo a priori. Non ci andrò mai o ci andrò dopodomani, boh, non lo so».
Per concludere, di porte in faccia ne hai prese qualcuna, è un po’ l’epoca in cui viviamo che ci porta in tutti gli ambiti a vivere alti e bassi. Però il tuo è un bell’esempio, perché non hai mai mollato e oggi sei qui a presentare in Sony il frutto del tuo lavoro. Che messaggio ti senti di rivolgere ai ragazzi che coltivano la tua stessa passione?
«Di provare ad essere quanto più lucidi possibile per capire se quello che vogliono ha la maturità o meno per aspirare ad un certo tipo di situazioni, perché l’arte non è necessariamente mainstream, la nicchia non è né meno né più importante. E’ necessario farsi un esame di coscienza, un’autoanalisi, non arrendersi mai se si crede di avere qualcosa da dire, di essere dei predestinati. Forse il talento più grande è proprio la determinazione, l’avere un determinato focus sul proprio obiettivo. Perché è faticoso ricevere rifiuti, nel frattempo lavorare e dedicarsi ad altro, sentirsi considerato ma non al giusto livello. Non è semplice sopportare tutto questo, ma se credi di avere qualcosa da dire bisogna andare avanti e non fermarsi».
Mai lasciare nulla di incompiuto, le cose a metà, soprattutto la pizza…
«Esattamente (ride, ndr), non lo farò mai più!».
Nico Donvito
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