A tu per tu con il cantautore romano classe ’62, in uscita con il singolo intitolato “Le tre cose che so“
Vincitore di premi prestigiosi, dal “Rino Gaetano” a “Musicultura”, con ben quarant’anni di carriera alle spalle, Fabrizio Emigli è di uno dei simboli della canzone d’autore e della sua città, Roma, nel quale ha mosso i primi passi frequentando lo storico Folkstudio, locale cult di Trastevere dove hanno esordito anche, tra gli altri, Francesco De Gregori ed Antonello Venditti. Nel corso del suo percorso, ha collaborato con artisti del calibro di Sergio Endrigo, Edoardo De Angelis, Mimmo Locasciulli e Claudio Baglioni. “Le tre cose che so” è il titolo dell’inedito che segna la sua rentrée discografica, una canzone raffinata, se vogliamo d’altri tempi, che mette in risalto la bellezza della poesia e il tutto fascino della comunicazione musicale.
Ciao Fabrizio, partiamo dal tuo singolo “Le tre cose che so”, che significato attribuisci a questo brano?
«Cosa che faccio spesso nei miei testi, coi miei testi, è fare una sintesi sgangherata del pensare attorno (hai presente quando ti dicono: “cosa pensi di? – cosa hai imparato da? – cosa consiglieresti a?…”. La mia risposta è spesso: “Due o tre cose ho imparato nella vita – le tre cose che so… e, forse, sono pure sbagliate”! Questo, più o meno, significa».
Cosa aggiungono le immagini del videoclip diretto da Ico Fedeli?
«Con Ico, oltre al bellissimo rapporto di amicizia, c’è da sempre un’intesa artistica che ha qualcosa di “spirituale” (senza esagerare, eh); lui ascoltò il brano, poi venne da me per una ventina di volte, nelle ore più strane e inusuali della giornata, camminando su e giù per la stanza ad occhi chiusi… ascoltando in loop la canzone cento volte e ad ogni passaggio strumentale, ad ogni frase o sensazione, mi dettava (scrittura automatica? … qua c’è l’aspetto “spirituale” dell’incontro) immagini, persone, scene che gli venivano in mente. Io appuntavo (poi il 90% delle cose le abbiamo scartate al momento delle riprese) e, pur non essendo didascalico, credo che abbia scritto sopra il mio testo, quasi in trasparenza, un “suo” testo, fatto stavolta di immagini in movimento».
Facciamo un salto indietro nel tempo, quando e come hai mosso i primi passi nel mondo della musica?
«Giovanissimo, le prime band rock in oratorio, poi le prime canzoni scritte, il primo concerto di soli brani miei (teatro dell’oratorio salesiano al Testaccio – oggi Cinema Greenwich), poi il Folkstudio (sudore e brividi, la prima volta) … parliamo di due secoli fa (ride, ndr)».
Il Folkstudio è un locale storico della capitale, un simbolo di un’epoca che forse non esiste più. Cosa ricordi di quegli anni che ti hanno visto dividere il palco con grandissimi altri artisti?
«Il fermento, oggi un po’ sopito e rattrappito, la consapevolezza che si stava vivendo un periodo importante (io arrivai subito dopo l’Era degli “storici” della cosiddetta Scuola Romana, ma li incontravamo e ne subivamo fascino ed energie positive) … e poi, comunque (ma il merito era del BOSS Cesaroni) si era tutti sullo stesso piano: Folkstudio Giovani? Due canzoni a testa – poteva essere Emigli o il Mario Rossi di passaggio – poi due canzoni Giorgio Lo Cascio, una (forse) se passava Francesco o Antonello o Mimmo… mi piaceva molto. (Francesco De Gregori, Antonello Venditti, Mimmo Locasciulli, ndr)».
Come valuti l’attuale situazione discografica e ciò che si sente oggi in giro?
«La discografia ormai non so più cosa sia o forse non l’ho mai capito abbastanza (feci il primo contratto di esclusiva in RCA con Marco Luberti e Roberto Fia ed era bello passare pomeriggi interi in quello che era l’allora stabilimento dell’RCA sulla Tiburtina, mangiare alla mensa insieme a Lucio Dalla o Nino Buonocore; ecco, là si respirava vinili e microfoni e chitarre). Di canzoni belle se ne scrivono (vivaddio) ancora. Vanno però scovati, coccolati gli artisti e, con molta probabilità, va detto loro a pieni polmoni che “uno su mille ce la fa“… ma è l’ultima cosa in ordine di importanza per chi decide di fare il mestiere dell’autore, del cantautore, del musicista».
Come se la sta passando, oggi, la canzone d’autore?
«Sento cose belle in giro (e non parlo dei Talent)… sento tante cose belle. Manca solo, secondo me, la canzone bellissima».
Tra i tanti artisti con cui hai collaborato, c’è un incontro in particolare che ti ha segnato sia umanamente che professionalmente?
«Il rapporto di amicizia ed artistico con Edoardo De Angelis è, con molta probabilità, quello che più mi ha segnato. Giovanissimo mi portò lui per la prima volta in diretta RAI (la trasmissione era “Jeans” condotta da Fabio Fazio) e feci per la sua “Cantare in Italiano” la prima diretta televisiva chitarra e voce (capello cotonato e occhi bistrati… era però già a colori eh!)».
Per concludere, qual è la lezione più importante che ti ha dato la musica in tutti questi anni di attività?
«La musica mi ha, con molta probabilità, tenuto lontano da pericoli che negli anni della mia adolescenza erano dietro ogni angolo (e parlo anche degli angoli di casa mia, non solo quelli del Rione dove ho vissuto). Non mi sembra poco. Credo mi abbia salvato la vita (non esagero). Riconoscenza e gratitudine assoluta!».
Nico Donvito
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