A tu per tu con l’artista toscano, fuori con il disco “Pranzo di famiglia“, disponibile dal 25 ottobre
Musicista e cantautore, in quest’ordine si definisce Andrea Biagioni, artista che ricordiamo per la sua partecipazione nel corso della decima edizione di X Factor e che abbiamo conosciuto lo scorso anno in occasione di Sanremo Giovani 2018 (qui la nostra precedente intervista), dove si è classificato al quarto posto con il brano “Alba piena”. A dodici mesi di distanza lo ritroviamo per parlare dell’album “Pranzo di famiglia”, rilasciato lo scorso 25 ottobre, il suo primo lavoro scritto e cantato completamente in italiano.
Ciao Andrea, bentrovato. Partiamo dal tuo nuovo progetto discografico, com’è nato?
«Ho iniziato a lavorare a questo album circa tre anni fa, tutto è cominciato da “Via da me”, il pezzo che mi ha aperto verso una nuova ricerca musicale e una riflessione psicologica. Ogni traccia di questo disco racconta un particolare momento emotivo della mia vita, un album autobiografico che affronta vari argomenti, ripercorrendo nella fattispecie questi ultimi dieci anni».
Secondo te, manca al giorno d’oggi questo tipo di approccio autobiografico nella musica? Noti che ci sia un po’ la tendenza a voler dire tanto e troppo, rischiando alla fine di non comunicare nulla a chi c’è dall’altra parte?
«Per fortuna ci sono ancora tanti artisti che riescono a trasportarti nel loro mondo, ma riconosco della verità in quello che dici, molte canzoni vengono scritte perché và di moda una certa tipologia, per cui si è persa un po’ l’esigenza di raccontarsi o raccontare quello che succede intorno. Quando in un brano metti tante cose rischi di non far arrivare l’ascoltatore al nocciolo della questione, mi capita di sentire dei pezzi in radio che non condivido, soprattutto per quanto riguarda l’aspetto testuale».
Dal punto di vista musicale, invece, quali sonorità hai voluto abbracciare?
«Nasco come musicista, per cui tendo a dare molta importanza al suono, per me arriva prima di tutto il resto. Infatti, il mio artista preferito italiano è Lucio Dalla, proprio perché ha dato sempre rilievo alla parte strumentale delle canzoni, talvolta stravolgendole metricamente, ma nei suoi pezzi ritrovo ancora oggi la completezza, perché appagano sia il mio lato cantautorale che il mio orecchio da musicista. A livello di sound, in questo disco ho cercato di trovare un giusto equilibrio tra quelli che sono stati i miei ascolti in inglese e la scrittura in italiano, perché il modo di comporre è completamente diverso».
Personalmente ho ritrovato in questo disco una doppia anima, perché possiede al suo interno sia una forte matrice cantautorale, ma anche una forte matrice musicale, perché lascia parecchio spazio alla parte strumentale. Come sei riuscito a coniugare questi due aspetti e a calibrarli nel modo giusto?
«E’ importante per me sentirtelo dire, sono contento che ti sia arrivato questo, perché è esattamente quello che ho voluto fare. Il problema di oggi è che ci stiamo riducendo ad una preoccupante semplificazione dei concetti, a volte mi dicono che scrivo in maniera poco chiara, diciamo pure eterea, che tendo a non essere troppo preciso nella descrizione di un qualcosa. A me questo piace, ti parlo dal punto di vista di un ascoltatore che si diverte ad interpretare le canzoni, altrimenti che ruolo ha chi ascolta? Alle volte è bello lasciare anche qualche dubbio, affinché ognuno possa porsi delle domande oppure associargli il significato che preferisce. E’ giusto così, l’importante è che si dica e venga percepito qualcosa».
In passato hai composto tanto in inglese, mentre in questo disco le tracce sono tutte in italiano. Quali sono le differenze sostanziali che hai riscontrato in questo nuovo approccio alla scrittura?
«La prima difficoltà che ho trovato è stata la cadenza delle parole, ci sono alcune versi in cui ho dovuto necessariamente spostare gli accenti, perché mi ritornava meglio metricamente. Non è facile per me comporre in italiano, ci metto molto più tempo rispetto all’inglese che, secondo me, suona più musicale perché sono stato abituato a scrivere così, sicuramente è uno degli aspetti da migliorare in futuro. Poi, ti dirò, per me conta molto di più la parte musicale, la difficoltà nasce anche da questo, perché parte tutto da un paio di accordi che mi emozionano, il testo viene da sé. La perfezione è quando le due cose nascono con facilità in contemporanea, perché se scrivi la musica e il testo in momenti diversi si sente, credo che questa sia la grande differenza tra le canzoni di oggi e quelle di una volta».
Oggi come oggi il termine “artista” viene utilizzato un po’ a sproposito, spesso come sinonimo di “cantante”, ma sappiamo bene entrambi che non sono la stessa cosa. Tu quale significato attribuisci alla parola “artista”?
«Per me un artista è semplicemente un individuo che utilizza se stesso come mezzo per esprimere un’esigenza emotiva. In famiglia mi hanno sempre chiamato artista per prendermi un po’ in giro (sorride, ndr), oppure c’è chi ha una strana concezione di questa terminologia, l’associa a una persona che vive nel proprio mondo, in realtà si tratta di qualcuno estremamente ipersensibile, bombardato da continui input esterni, che subisce maggiormente i ritmi e le pressioni della società di oggi. Come si fa a non diventare matti in un’epoca come questa? Nonostante questo, l’artista riesce a vedere quel qualcosa in più che la persona al suo fianco non nota, attorno ad una determinata immagine riesce ad immaginare una cornice di colori e di suoni».
Ti rigiro la domanda che ti sei appena posto: come fai a non diventare matto in un’epoca come questa? Qual è la tua ancora di salvezza?
«Beh, intanto io non ho mai preteso di non essere matto (ride, ndr), forse la vera salvezza è questa. Per quanto mi riguarda, nonostante il tipo di lavoro che faccio, ho scelto di non trasferirmi a Milano ma di restare nella mia amata campagna vicino Lucca. Essendo cresciuto a pieno contatto con la natura in città impazzisco, mi ammalo di più, mi stresso e mi scoraggio in continuazione perché ho bisogno di ritmi diversi, sono abituato a prendere le cose con più calma, ho bisogno di vivere in disparte, lontano dal caos e dalle persone, mi piace condividere con gli altri la mia musica, ma poi tendo ad isolarmi per sentire il suono degli uccellini in cielo. Sai, dopo X Factor avrò impiegato un anno per riprendermi da tutto quello stress (sorride, ndr)».
Per concludere, a chi ti piacerebbe arrivare con questo disco nello specifico e con la tua musica in generale?
«Nel suo piccolo, mi piacerebbe che questo disco riuscisse a far riaccendere una scintilla nelle orecchie e nella mente delle persone, per far capire loro che la musica può avere suoni e respiri diversi da quelli a cui veniamo sottoposti e abituati oggi. Le canzoni si ascoltano con troppa superficialità, vorrei si tornasse a dare importanza al contenuto e meno alle mode, per far sì che ci sia una sempre più ampia offerta musicale e non solo la solita roba. E’ difficile riuscire ad esprimere questo concetto in maniera semplice, perché è molto complesso».
Direi che potremmo utilizzare un esempio piuttosto stupido: è un po’ come quando si va in un ristorante e anziché dal menù “all you can eat” preferisci ordinare da quello “alla carta”…
«Esattamente, è quella cosa lì».
© Foto di Luca Palatresi
Nico Donvito
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