A tu per tu con il cantautore milanese, in uscita con il suo nuovo album “Dell’odio dell’innocenza“
La musica ha un pensiero, non è soltanto intesa come cibo in scatola per le orecchie, rappresenta bensì una prelibata pietanza per il nostro animo. Lo si percepisce entrando a contatto con Paolo Benvegnù e la sua dimensione fatta di certezza, insicurezza, quotidianità ed astrattezza. Si intitola “Dell’odio dell’innocenza” il disco di inediti che segna il piacevole ritorno dell’ex Scisma, cantautore e musicista che ha parecchio da raccontare… noi siamo pronti ad ascoltarlo.
Ciao Paolo, benvenuto. “Dell’odio dell’innocenza” è il titolo del tuo nuovo album, in uscita il 6 marzo. Com’è nato e come si è evoluto nel tempo questo progetto?
«Ci sono due teorie a riguardo, che sono un po’ in antitesi tra loro: la prima sostiene che dopo tre anni di intuizioni sia arrivato il momento per me di dire alcune cose; la seconda ipotesi, invece, è che io abbia ricevuto una busta da un anonimo che non si è mai voluto palesare, all’interno c’era già il disco pronto, con tutte le tracce e i titoli. Scegli tu quale delle due versioni è plausibile, se ritenermi responsabile o meno di questo “scempio”».
“Odio” e “innocenza” sono due parole importanti, quasi opposte tra loro, che significato attribuisci ad entrambi i termini?
«Per quanto riguarda l’innocenza, credo sia una parola che racchiude altri piccoli significati, penso all’ingenuità e al senso del pudore, però contiene in sé anche la colpevolezza, essere innocenti per un essere umano non è una questione di interpretazione, è una condizione. Di tanto in tanto vedo grande innocenza anche nelle bassezze più assolute, in tal senso noi essere umani siamo dei mostri, innocentemente dei mostri, non è un caso che abbiamo completamente soggiogato questo pianeta. L’odio, invece, ha a che vedere con la parte più sentimentale dell’uomo, per cui lo intendo come un prolungamento estremo dell’amore».
A livello di tematiche, cosa hai voluto portare con te all’interno di questo tuo bagaglio musicale e cosa hai voluto lasciare fuori?
«Questo è un disco di impossibilità, come tutti gli album e le opere del mondo, perciò mi sarebbe piaciuto mettere dentro tutto ciò che di meraviglioso e terribile ho percepito, però non ne sono stato in grado. Questo è bello, è molto umano, spero un giorno di arrivare il più possibile vicino a quel senso di inesprimibile che cerco sempre e, qualche volta, riesco pure a sentire».
Qual è l’aspetto che più ti affascina nella fase composizione di una canzone?
«Il morire, perchè si muore. Penso che chiunque faccia qualcosa allo stremo delle proprie forze, prima o poi, debba addormentarsi, in tal senso questa è un po’ una piccola morte. La ricerca in questo caso per me è una sorta di perdita, una vita non razionale ed è bellissimo perché questo ti porta su un piano completamente diverso rispetto al comune quotidiano. D’altro canto è confrontante perché ti ritrovi in un mondo che hai creato insieme alle situazioni, al tempo e allo spazio che ti circondano nel momento della composizione».
Che idea ti sei fatto dell’attuale scenario discografico? Secondo te il mercato è ancora in grado di valorizzare il talento?
«Personalmente preferisco vivere in un altro mondo, perché non ha alcun senso. Io mi sento uno che non può pretendere di avere del denaro in cambio perché butto dei sassi in un fiume, scrivere canzoni in questo esatto momento storico, se non lo fai per business, è un po’ come buttare dei sassi in un fiume, perciò non riesco e non voglio vederla questa cosa. Sento di essere un po’ il ponte tra l’oggi e un mondo che non c’è più, perciò sono un fantasma in un mondo di fantasmi, di conseguenza posso spiegare come funziona il mondo dei fantasmi al mondo degli apparsi».
Da fruitore, che rapporto hai con la musica? Ti reputi un ascoltatore versatile o tendi a cibarti di un genere in particolare?
«No, io sono un casuale, un casuale fortunato perché spesso e volentieri mi capita di ascoltare cose che mi piacciono, perché conosco delle persone a me assonanti che mi propongono di ascoltare determinate cose. Per me la musica è altro, vale a dire il suono della vita, quando esco per strada, quando ascolto la musica di tutto ciò che ci circonda, lo stesso frusciare del vento, un sacco di suoni che trovo sinceramente interessanti».
Per concludere, qual è la lezione più importante che senti di aver appreso in questi anni dalla musica?
«In realtà gli insegnamenti sono tre: il primo è quello dell’eterna ripartenza che fà in modo che la vita diventi stupore e meraviglia; il secondo è la resa al caos e alla mancanza di controllo delle cose, in un momento storico in cui ci si riunisce in perdenti e vincenti, il coraggio di sapersi arrendere all’impossibilità di gestire qualsiasi cosa lo considero un gran bel privilegio; il terzo e ultimo insegnamento ha a che vedere con l’insondato e l’insondabile, io suono perché non sono capace di suonare, per cui vado a sondare un mio limite di relazione con le cose, per esplorare l’impossibile e per vedere l’invisibile, tutto questo senza esistere veramente, questo è quello che mi affascina di più, essere e non essere sono la stessa cosa. E’ chiaro che dalla propria soggettiva si è, ma da un’altra soggettiva più lontano si và e più difficile è vedersi essere».
Nico Donvito
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