A tu per tu con il cantautore torinese, al suo debutto sanremese con il brano “Mai dire mai (La locura)“
A un anno e mezzo di distanza dalla nostra precedente chiacchierata, ritroviamo con piacere Guglielmo Bruno, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Willie Peyote, ispirato artista classe ’85 che abbiamo modo di apprezzare in questa 71esima edizione del Festival di Sanremo. “Mai dire mai (La locura)“ è il titolo del brano presentato sul palco dell’Ariston, un testo pungente che riflette sull’approccio culturale tipico di noi italiani, il tutto condito da una profonda ironia che mette in risalto uno stile a metà strada tra rap e cantautorato.
Ciao Guglielmo, bentrovato. Partiamo “Mai dire mai (La locura)“, una canzone di denuncia o più un esercizio ironico di stile?
«Un po’ entrambe le cose. Il mio obiettivo non era quello di scagliarmi contro qualcuno, bensì prendere in giro noi stessi, me compreso, che usufruiamo della musica. Dagli addetti ai lavori alle major, tutto quello che sta intorno alla produzione artistica, non gli artisti nella fattispecie. Il tentativo è quello di parlare del nostro approccio al mondo della cultura in generale, capisco che qualcuno possa essersi sentito preso in causa, ma non era la mia intenzione.
Sai, secondo me, non si può far finta che sia tutto perfetto, senza però sparare sentenze, prendendomela piuttosto con la vuotezza con cui noi ci rapportiamo all’arte, compresa la nostra solita fretta nel consumare le cose. E’ una canzone figlia del momento che stiamo vivendo. Alla fine siamo tutti un po’ incazzati, però vorrei che si percepisse più l’ironia piuttosto che la rabbia, la stessa che sono solito mettere spesso nelle mie canzoni».
Sicuramente un atto di coerenza con il tuo percorso e quello che hai avuto modo di mostrarci negli anni…
«Ma anche e soprattutto un atto di coerenza con quello che penso. Andare a Sanremo e non fare quello che so fare mi sembrava una presa in giro, mentre mettermi passare per il Ricky Gervais ai Golden Globe, lo trovavo più divertente. Il messaggio è: prendiamoci un po’ più in giro perchè siamo tutti ugualmente schiavi di certe cose, non facciamo finta di sentirci superiori a tutto questo. A dire la verità, mi ha stupito in positivo l’apertura che c’è stata nei miei confronti da parte dell’organizzazione perchè, diciamocelo, partecipo al Festival con una canzone che, tra le righe, prende in giro anche lo stesso Festival».
Stai soffrendo dell’assenza del pubblico in sala?
«Sai, per il discorso appena fatto, potrebbe anche essere un qualcosa di positivo, perchè almeno sono sicuro di non fare la fine di Maurizio Crozza nel 2013, contestato dal pubblico. A parte le battute, ne soffro meno di quanto si possa immaginare, perchè Sanremo non è un concerto, parliamo di una singola performance televisiva a serata, di una durata di tre o quattro minuti Per tutte questa questa serie di ragioni, forse, parei trarne anche beneficio, un po’ come accade negli stadi con alcuni calciatori orfani dei cori dei tifosi delle squadre avversarie. Per me il pubblico in sala non fa molta differenza, come potrà essere ad esempio per uno come Fiorello. Per quanto mi riguarda Sanremo si può fare anche senza i signori impellicciati in seconda fina, ecco».
Sei uno dei pochi a non portare in gara una canzone d’amore. In un’annata particolarmente prolifica di sentimenti, lo consideri un vantaggio per la classifica finale?
«Non lo so se è un vantaggio o uno svantaggio, ma ero certo che d’amore ne avrebbero parlato tutti, di conseguenza non serviva anche la mia opinione a riguardo. Ho cercato di portare l’attenzione su altro, perchè credo che i sentimenti siano importanti, ma ci sono tanti altri aspetti della vita che vale la pena raccontare, dal lavoro in tutte le sue forme al nostro rapporto con la cultura, l’arte, lo spettacolo, lo sport. Ho soltanto allargato un po’ il campo, ma ero sicuro che l’amore sarebbe stato ben rappresentato, non servivo anch’io a parlare di quello».
Nei tuoi lavori non ti sei mai risparmiato o censurato, ma in una cassa di risonanza enorme come quella di Sanremo, con una canzone come questa piena di zeppa riferimenti e immagini, ti sei posto l’interrogativo che una frase o un concetto possa essere mal compreso o peggio ancora strumentalizzato?
«Mal compreso è già accaduto, mentre strumentalizzato non credo, perchè comunque non sono uno strumento di nessuno, scrivo in maniera piuttosto chiara e se qualcuno usa una mia frase a sproposito mi metto in mezzo a spiegarla, ad argomentarla, così finisce il gioco. Non ho paura di questo, perchè non sono portavoce di nessuno se non di me stesso. E non voglio nemmeno esserlo, quindi non credo possa capitare in alcun modo.
Del non essere compreso, invece, questo rischio c’è, perchè tanti non sanno chi sono, tanti non sanno che questo è il mio modo di fare. Ci sta, è nell’ordine delle cose e non mi offende il fatto che una mia frase possa non essere capita. A me piace scrivere per sviluppare un pensiero critico e creare una discussione, se quello che dico incita un qualche discorso è come aver raggiunto il mio obiettivo. Poi, se chiedono la mia opinione io mi spiego, se non la vogliono va bene lo stesso».
© foto di Chiara Mirelli
Nico Donvito
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