A tu per tu con Simona Molinari, in occasione dell’uscita del suo sesto progetto discografico intitolato “Petali“
A tre anni di distanza dalla nostra precedente chiacchierata, ritroviamo con piacere Simona Molinari per parlare di “Petali”, album prodotto da Fabio Ilacqua e pubblicato da BMG lo scorso primo aprile. Un progetto anticipato dai singoli “Davanti al mare”, “Tempo da consumare” e “Lei balla sola”, brani che hanno dato l’idea dell’evoluzione personale e artistica maturata dalla cantante in questi ultimi anni. Nove tracce che fotografano diversi stati d’animo, fornendo un’accurata e appassionata visione del nostro mondo interiore e di quello che ci circonda.
Ciao Simona, bentrovata. Partiamo da “Petali”, il tuo sesto album in studio, che arriva a nove anni di distanza dal tuo precedente disco di inediti “Dr. Jekyll Mr. Hyde” e a cinque da quello di cover “Casa mia”, in cui ti sei cimentata nella reinterpretazione di alcuni standard internazionali. Qui torni in prima persona, anche se nel frattempo è cambiata la musica e immagino sia cambiata anche tu. In cosa ti senti diversa e come ti sei approcciata a questo nuovo lavoro?
«Fino ad una certa età ho passato moltissimo tempo sul palco e poi, sette anni fa, è arrivata mia figlia. Ho avuto così il tempo e il modo di dedicarmi a me stessa come persona, nel concentrarmi su qualcosa che andasse al di là dello spettacolo. Se prima mi esprimevo solo sul palcoscenico, da quel momento ho cominciato ad esprimermi anche nella vita. Le cose cambiano, dalle priorità allo stile, quindi mi sono avvicinata a questo disco con un approccio completamente diverso. Fino ad un certo punto ho avuto nella testa la voglia di rendere il jazz un po’ più pop, sdoganando il fatto che fosse un genere noioso e poco popolare. Negli ultimi tempi, invece, complice il grande cambiamento sociale e tecnologico, la mia attenzione si è spostata su altro e il mio intento è diventato quello di scattare delle fotografie di questa vita, per come la vedo io, nella luce e nel buio, nei pieni e nei vuoti, donando al tempo stesso una carezza agli altri. Alla fine siamo meno diversi di quello che pensiamo, per questo volevo trovare argomenti comuni volti a sottolineare il nostro essere simili».
Già il titolo “Petali” fa pensare un po’ ad una rinascita, o per lo meno a quel processo di crescita e ricrescita che fa parte sia della botanica che della nostra vita. Un disco che parla di alti e di bassi, argomento mai come in questo momento così percepito. Quanto pensi sia personale e quanto pensi possa essere universale questo album?
«Credo che sia un disco personale e universale al tempo stesso, proprio perché sono fermamente convinta che, alla fine, siamo tutti uguali. Nasciamo in un determinato modo, ognuno con la propria unicità, ma crescendo nel modo di sentire entrano in gioco vari fattori. In fin dei conti, però, al fulcro siamo fatti della stessa essenza. Quindi credo che questo modo di percepire sia universale, almeno per quanto riguarda delle fasce specifiche di età. Penso che la mia generazione possa capire perfettamente ciò che ho voluto raccontare con queste canzoni e che possa sentirsi, in qualche modo, presa per mano».
Le sonorità sono sempre pop, ma come ci hai abituato in passato anche e soprattutto ricercate ed eleganti. Che tipo di ricerca c’è stata in studio insieme al producer Fabio Ilacqua e come ti sei trovata a lavorare con la squadra di BMG?
«Benissimo, tutto il team ha lavorato con entusiasmo e grandissima professionalità. La cosa più bella è stata il lavoro di squadra, ciascuno si è occupato del suo settore, mettendo a disposizione degli altri la propria esperienza. Fabio è un grandissimo professionista, ai suoi esordi come produzione artistica e come arrangiatore. Abbiamo chiacchierato su quelli che potessero essere i mondi che mi piacciono e le atmosfere che lui voleva raccontare. In questo si è rivelato fondamentale il suo essere autore, lo si percepisce da come è riuscito ad accarezzare musicalmente i testi, in modo delicato e funzionale».
Sicuramente “Petali” è nato in un presente molto dilatato, durante la pandemia abbiamo avuto tutti più tempo per pensare, rimuginare su cose e situazioni della nostra vita. In una società che viaggia alla velocità della luce, in cui la musica non si usufruisce più come un tempo, la gente ha ancora la “pazienza” di mettersi lì ad ascoltare il significato profondo di un album come questo? E, perchè no, magari anche dall’inizio alla fine?
«Guarda, io lo spero. Da un certo punto di vista nutro molte speranze perché vedo che stanno andando fortissimo i podcast, contenuti che vanno ascoltati e non possono essere utilizzati come sottofondo. Quindi, secondo me, c’è gente che vuole soffermarsi sui temi e approfondire argomenti che vadano al di là della musica. In questo senso mi sono sentita di poter realizzare un progetto del genere, anche se viviamo un periodo dove tutti andiamo di corsa e abbiamo imparato a fare più cose contemporaneamente. Forse non ce lo vedo oggi un ascoltatore che si mette a sentire un disco sul divano, anche se il vinile ha proprio questa funzione, perché possiede tutta una sua ritualità. Un po’ come farsi un caffè con la moka piuttosto che con la macchinetta (sorride, ndr), sono due cose completamente diverse. Al tempo stesso, con Spotify e le cuffiette bluetooth, possiamo fare qualsiasi altra cosa simultaneamente anche ascoltare musica mentre facciamo la spessa. Stiamo diventando decisamente tutti multitasking».
La voce è un dono e nel tuo caso è sempre stata un elemento riconoscibile nel tuo percorso. Che ruolo ha in questo disco e in che termini pensi sia cambiato il tuo modo di interpretare in questi tredici anni di carriera?
«Come qualsiasi altro strumento musicale, anche la voce è un mezzo. Per molto tempo l’ho usato come strumento vero e proprio, mi piace che sia un suono, al pari degli altri elementi di un’orchestra. In altri casi, trovo che sia un importante veicolo per poter esprimere qualcosa. In questo disco la voce è stata utilizzata quasi come un parlato-cantato, dove non ci sono chissà quali virtuosismi, come invece magari in passato erano molto presenti, specialmente nell’ultimo album dove riproponevo standard classici. In “Petali” ho scelto di utilizzare la mia voce come strumento per dire qualcosa, mettendomi a completo servizio della parola».
Per concludere, qual è l’insegnamento più importante che senti di aver appreso dalla musica fino ad oggi?
«Sicuramente più di uno. Il primissimo è che non esistono ostacoli che non puoi superare. Anzi, l’ostacolo che superi diventa importante perché ti aiuta a non avere più paura dei successivi. Quando smetti di avere paura sei vivo e in grado di non occuparti più solo di te stesso, ma anche degli altri. La seconda cosa che mi ha insegnato la musica è che, per riempire i vuoti e superare meglio gli ostacoli, tutto diventa più semplice se si fa in squadra. Nessuno si salva da solo, nei viaggi che fai nella vita diventa affascinante percorrere tratti del proprio cammino insieme alle persone che ti vogliono bene. Solo così, qualsiasi problema diventa secondario al piacere di vivere».
Nico Donvito
Ultimi post di Nico Donvito (vedi tutti)
- Il Sanremo che verrà, Carlo Conti: “Il resto è fumo, le canzoni sono l’arrosto” - 21 Novembre 2024
- Negramaro: guida all’ascolto di “Free Love”, istruzioni per l’uso - 21 Novembre 2024
- Sanremo 2025, Carlo Conti anticipa l’annuncio dei big al 1° dicembre - 21 Novembre 2024
- Fausto Leali: “La musica porta con sé l’amore e la pace” – INTERVISTA - 21 Novembre 2024
- Buon compleanno Rocco Hunt, 30 canzoni per rendergli omaggio - 21 Novembre 2024