A tu per tu con il cantautore napoletano, in uscita con il suo ìalbum “Lo chiamavano vient’ ‘e terra”
“La musica è sacra”, questo l’insegnamento che Enzo Gragnaniello ha appreso in tanti anni di attività. “Lo chiamavano vient’ ‘e terra” è il titolo del suo nuovo disco, edito da Arealive con distribuzione Warner Music Italy, un lavoro onesto e coerente, rilasciato lo scorso 26 aprile. Dodici tracce inedite che incarnano sia la poetica che lo spirito del cantautore partenopeo, impreziosite da sonorità mediterranee e da atmosfere che provengono dalla tradizione classica napoletana. Nel corso della sua longeva carriera, l’artista ha collaborato con prestigiosi colleghi del calibro di Mia Martini, Roberto Murolo, Ornella Vanoni, Andrea Bocelli, Nino D’Angelo, James Senese, Raiz, Nino Buonocore e Maria Nazionale, fino alla più recente collaborazione con Arisa.
Ciao Enzo, partiamo dal tuo ultimo album “Lo chiamavano vient’ ‘e terra”, cosa racconta?
«Racconta, come sempre, la mia vita. Il titolo mi è sembrato giusto, perché il vento viene sempre associato alla libertà, un concetto istintivo e per me fondamentale, pensa che da piccolo di notte dormivo nelle auto che stavano nel mio quartiere (ride, ndr), non tornavo a casa, avevo otto-nove anni e ti lascio immaginare la preoccupazione di mia mamma che mi cercava in lungo e in largo. Mi sono sempre sentito uno spirito libero, la solitudine non mi ha mai fatto paura.
Questo disco è un racconto autobiografico, che parte da quando ero ragazzo, parla delle mie prese di coscienza, delle lotte contro un sistema troppo dislivellato per i miei gusti. Attraverso le tracce emerge sia la mia parte interiore più romantica che quella esteriore, influenzata dalle contraddizioni e da tutto ciò che vedo attorno a me, sociologicamente e spiritualmente parlando».
Le sonorità, invece, sono quelle che da sempre contraddistinguono il tuo repertorio e che ti hanno portato a ricevere per tre volte la targa Tenco e numerosi altri premi. Al di là dei trofei, quali sono i riconoscimenti più importanti che hai ricevuto in tutti questi anni di carriera?
«Dico sempre che il mio vero successo consiste nel sentirmi libero da tutto quello che c’é intorno, affrontare il quotidiano come lo vivono gli altri, facendomi una passeggiata vicino al mare, alimentandomi delle cose belle che mi circondano. Ho sempre affrontato la vita in questo mondo, è come mettere le radici in profondità, prima o poi i rami devono andare verso l’alto».
Personalmente, qual è l’aspetto che più ti affascina nella composizione di una canzone?
«La vita è fatta di tanti umori che ci accompagnano dalla mattina alla sera, il segreto è saper cogliere l’essenza di ciascuno. Sono stati d’animo che si riflettono nei sogni, figuriamoci nelle canzoni. Quando abbraccio la chitarra e mi metto a suonare divento un mezzo, un veicolo, mi lascio andare e ascolto ciò che ho dentro. Non ci sono regole o posti precisi che mi spingono a comporre, è un riflesso incondizionato, un momento che va colto ovunque possa trovarmi. Insomma, nun se po’ spiegá (ride, ndr)».
Nel brano “Povero munno” analizzi l’era contemporanea, di questi tempi si tende sempre più spesso a resettare quello che c’è stato. Quanto è importante, secondo te, approfondire la conoscenza del nostro passato per poter comprendere al meglio l’epoca attuale?
«Recuperare dei valori significa permettere a noi stessi di costruire delle fondamenta antisismiche, che aiutano ad affrontare al meglio l’intera esistenza. In una strofa di questo brano mi riferisco in particolare agli anziani, che spesso vengono emarginati e messi da parte in un ospizio, nonostante rappresentino per tutti noi un immenso patrimonio. Ci sono racconti e insegnamenti che non possiamo ritrovare su nessun motore di ricerca, l’esperienza umana non ha nulla da spartire con la rete globale».
Parlando dei tuoi esordi, qual è stata la scintilla che ti ha fatto capire che una grande passione come la musica poteva diventare per te un vero e proprio mestiere?
«Tutto è successo per caso, da ragazzo facevo parte del comitato di disoccupati organizzati, ad un certo punto abbiamo avuto l’idea di mettere in piedi un gruppo che si chiamava “Banchi nuovi”, proprio come il nome del nostro quartiere. Le nostre erano canzoni di lotta e di rabbia, suonavamo in giro per i poveri, le persone emarginate, i senzatetto, gli operai in cassa integrazione e gli sfollati del terremoto dell’Irpinia.
Durante uno di questi spettacoli ho conosciuto Claudio Poggi, storico produttore di Pino Daniele, lui mi ha spinto a trasformare questa mia passione in un lavoro. Io non volevo diventare un cantante di quelli che andavano in televisione, quasi mi faceva impressione (sorride, ndr), ero spinto da un desiderio sociale di portare la musica in giro tra le persone in difficoltà, per dare loro sollievo e conforto. Da cosa nasce cosa, così ho cominciato ad avere un ottica sempre più professionale, ma la scintilla si è accesa prima negli altri e poi, piano piano, dentro di me».
So che ne hai parlato tante volte, ma non posso esimermi dal chiederti un ricordo su Mia Martini, sul vostro rapporto personale e artistico…
«Ho conosciuto Mimì nel suo momento di maggiore crisi, me la presentarono due impresari napoletani che volevano produrle un disco, cercavano autori. Ho assistito ad un suo spettacolo, l’ho conosciuta e, tornato a casa, ho scritto “Donna” in una nottata, di getto, per lei, ispirato da quell’incontro così emozionante. Il giorno dopo è venuta a casa mia, rimase in una stanza ad ascoltare col walkman la mia registrazione, non usciva mai (sorride, ndr), sentiva in continuazione il brano, subito dopo ricordo un fortissimo abbraccio e la sua profonda commozione. Io ho sentito lei e lei ha sentito me, questa è la magia della musica».
Altra figura femminile importante per il tuo percorso è Ornella Vanoni, con lei hai partecipato a Sanremo 1999, in gara con “Alberi”. Com’è nata questa collaborazione?
«Al tempo lavoravo con Caterina Caselli, mi propose di presentare un brano a Sanremo con Ornella Vanoni, naturalmente accettai subito perchè è un’artista gigantesca che ho sempre amato. Alla commissione è piaciuta e abbiamo vissuto questa piacevole esperienza, immagina una milanese e un napoletano insieme. Ricordo un aneddoto divertente, in una conferenza durante il Festival lei disse “Gragnaniello è un uomo intelligente”, mettendo un po’ le mani avanti (ride, ndr), davvero una persona straordinaria».
Arriviamo ad Arisa che, in tempi più recenti, ha magnificamente interpretato la tua “Vasame”, presente nella colonna sonora del film “Napoli velata”. L’hai conosciuta? Che idea ti sei fatto di lei?
«Arisa non l’ho ancora conosciuta, hanno inciso il brano senza di me, ma non mancherà di certo occasione. Devo ammettere che è stata molto brava a scandire bene le parole, non è facile per un artista non partenopeo, proprio come nel caso di Mimì e Ornella, ma anche Mina quando canta in napoletano è strepitosa. Questo accade quando, oltre che interpreti, si è anche dei veri artisti».
Ti ho citato questo tris di donne, anche se in realtà hai collaborato con tanti altri prestigiosi colleghi. C’è un ulteriore incontro che ti ha arricchito sia umanamente che professionalmente?
«Sicuramente quello con Roberto Murolo, mi ha colpito quest’uomo anziano con una grandissima voglia di cantare, infatti il suo disco uscito per festeggiare il suo ottantesimo compleanno, dove era inclusa la mia “Cu ‘mmè” in duetto con Mia Martini, si chiamava “Ottantavoglia di cantare”. Lui mi ha lasciato un bellissimo ricordo, un immenso artista figlio del grandissimo Ernesto Murolo, uno dei poeti napoletani più importanti del primo ‘900. Personalmente, sono affascinato da quella Napoli nobile, nel senso più alto della parola, di cui Roberto ha fatto senz’altro parte».
Per concludere, qual è la lezione più grande che senti di aver appreso dalla musica in tutti questi anni di carriera?
«Sai, la musica è stata ed è per me automaticamente un alimento spirituale, inconsapevolmente mi rendo conto che, tutte le volte che ho la chitarra in mano, trascendo e vivo una sorta di meditazione, provo un senso di pace difficile da spiegare con le parole. Questa è la ricchezza che mi ha dato la musica, è un qualcosa di sacro che devi amare e rispettare, un’energia che si può vedere e toccare con mano. Detto così potrei essere scambiato per un integralista (ride, ndr) ma nun ci sta nessuna religione che tenga, con la musica non si scherza perché possiede il potere di curare realmente le persone, ha salvato me e, di conseguenza, può farlo anche con gli altri».
Nico Donvito
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