A tu per tu con il noto cantautore bresciano, alla vigilia della data evento in programma al Fabrique
Un evento unico, un incontro tra generazioni e forme d’arte diverse, questo e molto altro ancora è “Timoria – Viaggio senza Vento, l’ultimo concerto”, la grande festa di tutti gli amanti del rock organizzata da Omar Pedrini, in programma il prossimo 2 dicembre ala Fabrique di Milano. Un live che chiuderà in bellezza la lunga cavalcata che ha visto l’artista bresciano fare il giro dell’Italia assieme alla sua super band. Sul palco diversi ospiti d’eccezione, dal rapper Ensi agli scrittori Nicolai Lilin e Matteo Guarnacca, passando per Eugenio Finardi e Mauro Pagani, ospiti del disco originale. A ventisei anni dalla sua pubblicazione, “Viaggio senza vento” resta un cult, un’opera rock che racconta la storia di Joe, ancora oggi molto attuale e d’ispirazione per molti giovani.
Ciao Omar, partiamo da “Timoria – Viaggio senza Vento, l’ultimo concerto”, che genere di spettacolo stai mettendo in piedi?
«Per concludere questa cavalcata che è stata il tour di “Viaggio senza vento 2019”, ho pensato ad un evento per salutare per l’ultima volta Joe, perché prima o poi dovevo tagliare questo cordone ombelicale. Per dare un segno ho pensato a questa festa per augurare lunga vita a lui e al rock. Pensa che inizialmente dovevamo girare per alcuni mesi con questo spettacolo, poi sono diventati nove e quella di lunedì 2 dicembre sarà la ventottesima data in calendario. La cosa bella è stata vedere che il pubblico era composto da ragazzi degli anni ’90 e ’00 che mi seguivano e ora hanno trenta/quarant’anni, ma anche in buona parte dalle nuove generazioni. Per questo motivo non la considero un’operazione nostalgia, questo disco è ancora vivo».
“Viaggio senza vento” è stata una delle pietre miliari del rock italiano…
«Erano anni tosti, venivamo dalle stragi di Falcone e Borsellino, eppure si respirava nell’aria qualcosa di nuovo. Il successo di questo disco ha dato le possibilità alle etichette di investire nel rock italiano, perché subito dopo arrivano i Marlene Kuntz, gli Afterhours che dall’inglese passano all’italiano. Pensa che noi aprivamo i concerti dei Litfiba, che già facevano una musica di quel tipo, anche se la chiamavano new wave italiana, poi c’erano i CCCP, i Diaframma e altre realtà che facevano una musica nuova. Artisticamente e umanamente parlando, credo che gli occhi mi si siano spalancati proprio in quel momento. Quella di Joe è la storia di un ventenne, mi fa piacere avere sul palco con me il king del freestyle, vale a dire Ensi, perché l’hip hop mi ha sempre affascinato, tant’è che con i Timoria negli anni ’90 abbiamo iniziato a realizzare canzoni con inserti rap, tra cui i 99 posse e gli Articolo 31, siamo stati tra i primi ad aprirci a quella che era considerata all’epoca una musica minore, mentre oggi la situazione si è completamente capovolta».
Infatti, rispetto a ventisei anni fa il mondo è nettamente cambiato, se riscrivessi oggi questa storia, pensi che l’Odissea di Joe sarebbe più o meno la stessa?
«E’ difficile risponderti. Io credo molto nelle nuove generazioni, per via degli anni in cui per i miei disturbi cardiaci ho dovuto rinunciare per diverso tempo a stare sul palco, sono stati otto anni terribili e davvero lunghissimi, periodo in cui mi sono dedicato all’insegnamento, cosa che continuo a fare tutt’ora alla Cattolica di Milano. Ho un ottimo rapporto con i giovani, non sopporto quelli della mia età, perché sono rimasti troppo ancorati al passato e non sono avvezzi ad aprirsi al nuovo, mentre io i ragazzi di oggi li amo. Se penso a quando ero giovane ricordo che la mia era chiamata “generazione senza vento”, pensavamo di essere degli sfigati, perché quella precedente veniva dagli anni ’70. Pensandoci ora i ragazzi di oggi sono due volte senza vento, perché non hanno la fiducia delle generazioni che li hanno preceduti, per cui dobbiamo star loro doppiamente vicino. Forse proprio per questo motivo, molti giovanissimi hanno scoperto questo disco, perché quando un ragazzo è in crisi le vie sono tre: L’autodistruzione, la violenza e la spiritualità, Joe decide di andare in oriente per trovare delle soddisfazioni spirituali che molte compensano la mancanza di quelle materiali».
Oggi come oggi ci sono due scuole di pensiero, c’è chi sostiene che il rock sia passato a miglior vita e chi invece sostiene che sia ancora vivo, vegeto e lotti insieme a noi. Qual è il tuo pensiero a riguardo?
«Il rock si è preso una piccola pausa, ha fatto un riposino (sorride, ndr), nel 2020 compirà settant’anni, Per cui ti rispondo con un verso che scrisse Neil Young nel ‘79, due anni dopo la morte di Elvis Presley, simbolo del rock’n’roll, dopo l’avvento della disco music e di altri generi, a tutto questo clima di incertezza lui risponde con: “Hey hey, my my, rock and roll can never die” e così è stato, perché alla fine sono scomparsi tanti filoni musicali, mentre il rock è risorto. Adesso siamo stati messi un po’ in un angolo dai gruppi senza chitarra e dalla trap, ma noi ancora siamo qui e “Timoria – Viaggio senza Vento, l’ultimo concerto” vuole essere una grande festa del rock’n’roll. Non ti nascondo che chiuderemo il concerto proprio con la canzone di Neil Young, l’inno di ogni rocker nel mondo. Al di là della musica, il rock è un’insieme di tante altre forme d’arte, un movimento culturale, uno stile di vita, per cui non morirà mai».
Nella tua carriera hai partecipato tre volte al Festival di Sanremo, due con i Timoria nel 1991 e nel 2002 e una da solista nel 2004 con la bella “Lavoro inutile”. Ti piacerebbe tornare a calcare il palco dell’Ariston e qual è il tuo pensiero su questa kermesse che sta per compiere settant’anni?
«Ho un bel ricordo del Festival, mi piacerebbe tornarci, però in un momento diverso, quella che sto vivendo è una fase lontanissima dall’idea di Sanremo, chissà in futuro. Il palco dell’Ariston rimane una vetrina importante, io stesso sono molto legato a questa manifestazione, nel ’91 è stato istituito per la prima volta il Premio della Critica anche per le Nuove Proposte, proprio per riconoscere merito ai Timoria, che ingiustamente subirono l’eliminazione diretta subito dopo la prima esibizione. Pensa che ero già tornato a Brescia, quando mi hanno avvisato che la nostra canzone aveva ricevuto questa bella gratificazione, che fino a quel momento esisteva solo per i big. Poi ho avuto il piacere di vincere da solista il Premio come Miglior Testo nel 2004 con “Lavoro inutile”, per cui non posso che nutrire simpatia per Sanremo».
Per concludere, qual è l’insegnamento più grande che senti di aver appreso dalla musica in tutti questi anni di attività?
«Quello che ho posto in apertura del mio libro “Angelo ribelle”, uscito lo scorso anno, ovvero le parole di mia nonna Nina che, il giorno in cui ho conpiuto sei anni, mi ha regalato la mia prima chitarra dicendomi: “con la musica non sarai mai solo”. Ho iniziato a suonare proprio per questo motivo, per non sentirmi solo, non pensavo al successo o a far diventare questa passione un vero e proprio lavoro. La musica è una compagnia per tutti e lo sarà sempre».
Nico Donvito
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