sabato 23 Novembre 2024

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Ivan Cattaneo: “Al talento ho sempre preferito l’unicità” – INTERVISTA

A tu per tu con il poliedrico artista, in occasione dell’uscita del progetto “Polisex 40th Anniversary

Professionista a tutto tondo, potremmo definire così Ivan Cattaneo, dotato di un’innata e ispirata indole creativa. Nel corso della sua storia musicale, ha saputo attingere dal passato per osservare in maniera nitida il futuro, realizzando progetti all’avanguardia. Pensiamo a “Polisex”, brano pubblicato nel 1980, oggi celebrato dall’etichetta Soter con un tributo innovativo, che include le reinterpretazioni di Adel Tirant, Attilio Fontana, Madame X, Gianni Leone e dello stesso Ivan. L’occasione ideale per poter approfondire, insieme al poliedrico artista, parte del suo istrionico percorso.

Ciao Ivan, benvenuto. Partiamo dal principio, parlando di come ti sei avvicinato alla musica: si è trattato di un colpo di fulmine o di un innamoramento graduale?

«Guarda, non posso dire di aver avuto una qualche folgorazione per la musica, in realtà ho sempre avvertito il bisogno di voler creare, in qualsiasi modo. Non a caso le mie passioni si sono manifestate quasi tutte insieme, dal dipingere allo scrivere. La musica ha fatto parte della mia vita sin da piccolo, dopo aver imparato a suonare la chitarra, ma non è mai stata l’unica mia forma di espressione. Il mio desiderio è sempre stato quello di creare, più che di comunicare qualcosa. La voglia di inventare storie o immagini attraverso qualsiasi mezzo».

Quali sono gli incontri che definiresti fondamentali per il tuo percorso?

«Il più importante è stato senz’altro quello con Nanni Ricordi, grandissimo produttore che ha lanciato me e tantissimi altri protagonisti della musica italiana. Tra gli artisti che mi hanno influenzato, ci sono chiaramente i Beatles, i primi a stimolare in me la voglia di fare e di scrivere. Più avanti ho scoperto artisti raffinati come Sakamoto, fino ad arrivare in tempi più recenti ai Portishead e ai Massive Attack. Ascolto tanto, per questo posso affermare di essere stato influenzato da tutto e da niente. Alla fine ho sempre cercato di esprimermi con le mie capacità, sicuramente minori dei nomi che ti ho appena citato, però erano mie, personali e innovative».

Molti di questi musicisti mitologici hai avuto anche modo di incontrarli e di frequentarli a Londra…

«Sì, poco dopo la maturità presa al liceo artistico. Essendo stato l’unico studente dell’istituto ad aver preso il massimo dei voti, ho ricevuto come premio questo viaggio a Londra. Era il ’71, sono rimasto lì per un paio di anni, un’esperienza che mi ha formato da ogni punto di vista. Era una Londra magica, la Swinging London come la chiamavano. Ho avuto modo di conoscere personalità di spicco come il pittore Francis Bacon, che mi ha influenzato moltissimo artisticamente. Ho intravisto in diverse occasioni David Bowie, essendo amico del suo manager Mark Edwards, un visionario che mi ha permesso di frequentare grandi personaggi, anche se alla fine per mantenermi facevo lo sguattero, non ero certo una superstar (sorride, ndr), non lo sono mai stato».

Musicalmente ti sei formato negli anni ’60 e ’70, ma è con il decennio successivo che si sono spalancate per te le porte del successo, a cominciare dall’album “Urlo”, dal quale viene estratto il singolo “Polisex”. Cosa ricordi di quel fortunato periodo?

«Sai, mi definisco un tipo atipico, in tutti i sensi, perché ho sempre cantato fuori dal coro. Sono nato come cantautore negli anni ’70, ma ho avuto successo negli anni ’80 reinterpretando i pezzi degli anni ’60. Atipico e schizofrenico direi (ride, ndr). La maggior ricchezza dell’uomo credo sia la capacità di saper cavalcare il tempo, ergendosi al di sopra di esso, ponendosi a cavallo tra le varie epoche. Riconosco di essere stato spesso proiettato nel futuro, ad esempio “Polisex” e l’album “Urlo” erano indubbiamente avanti, ma al tempo stesso ero anche nostalgico, quindi mi rifacevo a cose del passato, anche se rilette a modo mio. Ancora oggi mi affascina questa alchimia, mi piace sperimentare, prendere le emozioni di ieri per cercare di filtrarle in qualcosa di nuovo. Io non amo le cose belle, amo le cose mai viste. Al talento ho sempre preferito l’unicità».

In effetti ci si concentra su ciò che funziona al momento, spesso per cavalcare le mode. Il tuo impegno artistico, invece, è sempre stato declinato al passato e al futuro…

«E’ quello che ho sempre provato a fare, perché credo sia possibile spingersi creativamente verso qualcosa in più. Certo, è molto più comodo restare nella zona di comfort del proprio tempo, seguendo ciò che funziona in un determinato periodo. Però, secondo me, è bello poter attingere da una parte e dall’altra, rimodellare a proprio gusto, portando alla luce qualcosa che non sappia di passato, bensì di futuro».

Ivan-Cattaneo-Polisex

A cosa si deve la scelta di riproporre in nuova veste “Polisex” dopo più di quarant’anni?

«Devo dire la verità, non è un progetto mio, l’idea è della Soter, una casa discografica eccellente, piena di iniziative, che ha creduto moltissimo nel pezzo. E’ la seconda volta al mondo che si realizza un tributo su una sola canzone, in passato era stato fatto soltanto con “Slave to the rhythm” di Grace Jones, prodotto da Trevor Horn. E’ un atto molto bello e coraggioso, si tratta di veri e propri esercizi di stile. Ogni artista si cimenta in un genere, dalla bossa nova alla new wave, dalla house all’heavy metal. In scaletta ci sono anche una mia versione che ho voluto mantenere simile all’originale, forse un pochino più dance, e una mia versione chitarra e voce.

“Polisex” è un titolo abbastanza strano, pensandoci quarantuno anni dopo, avevo avuto l’intuizione molto grezza e naif di ciò per cui continua a lottare ancora oggi la comunità LGBT. Il concetto di omosessualità espansa che avevo pensato, in maniera molto ingenua, parecchio tempo fa. Anche la tecnica di incisione era all’avanguardia per l’epoca, in modo particolare l’utilizzo dei cori sovrapposti. In più l’arrangiamento era curato da Tony Mimms, uno dei più grandi musicisti che abbiamo avuto in Italia, che ha arrangiato capolavori come “Questo piccolo grande amore” di Claudio Baglioni e “Prisencolinensinainciusol” di Adriano Celentano».

Dopo il successo di “Polisex“, inauguri la stagione del revival, di fatto sei il primo artista in Italia a realizzare un disco di rivisitazioni. Hai lanciato in qualche modo una moda, per questo ti chiedo come pensi si sia evoluto, o involuto, il concetto di cover nel tempo? 

«Per me non erano cover, ma un’operazione di avanguardia, di recupero e di restauro, una sorta di archeologia moderna. Le canzoni venivano trattate in modo diverso rispetto a come si fa oggi, in più la scelta ricadeva su brani finiti quasi nel dimenticatoio. L’obiettivo era quello di dare una seconda vita a pezzi che non erano più trasmessi in radio e in tv. Canzoni come “Il geghegè” o “I watussi” non venivano riproposte, anzi, erano proprio sepolte. Così ho creato questa formula, attingendo a brani dalla struttura molto semplice, mescolandoli con suoni e immagini futuristiche, se vogliamo anche destabilizzanti per quei tempi. Caterina Caselli paragonò questo lavoro all’unione dell’acqua benedetta con il demonio. Infatti, dietro a questo progetto del revival c’era lei che, successivamente, propose la stessa ricetta ad una marea di artisti, tra cui gli Skiantos, Gruppo Italiano e Gigliola Cinquetti, combinazioni che non funzionarono come con me».

Ho una curiosità che riguarda un tuo collega: Pino Mango. Entrambi avete giocato molto con i look, lui soprattutto all’inizio, poi si è reinventato e si è evoluto, ma credo abbiate un background simile a livello di ascolti, principalmente provenienti dall’estero. Vi siete mai conosciuti? 

«Mango era un mio fan, aveva tutti i miei dischi, ricordo che gli piaceva moltissimo “SuperIvan” del ’79, oltre al mio utilizzo del falsetto, infatti si è rifatto molto a quel modo di cantare, anche se poi ha preso una strada completamente diversa. Lo considero davvero un grande artista, purtroppo ci siamo incrociati soltanto una volta dal parrucchiere. Come dici tu, entrambi avevamo sicuramente un’influenza musicale più estera che italiana».

Sei uno dei pochi artisti a non aver mai partecipato in gara al Festival di Sanremo, una scelta o una casualità?

«All’inizio era una scelta, nel senso che non ne avevo bisogno, poi quando è calato il successo mi sono presentato, ma non mi hanno più voluto. Adesso devo dire che non me ne frega un c***o di andarci. Sanremo è per me un mito fasullo, diventa sempre più inutile, una messa cantata televisiva che in fin dei conti non serve a nulla. Purtroppo manca un corrispettivo, il Festival suscita ancora oggi molta attenzione semplicemente perchè non ci sono più altri contenitori del genere. Ci vorrebbero rassegne nuove, qualcosa di più interessante. Sanremo è diventato il funerale della musica, un funerale ben celebrato, ma sempre di esequie stiamo parlando».

In un paio di occasioni, però, la tua storia si è incrociata indirettamente con quella del Festival, tipo nel ’78 quando ti sei occupato del look di Anna Oxa… 

«Sì, quel look era stato preparato interamente da me. Ennio Melis, il direttore generale della RCA, mi chiamò chiedendomi di occuparmi di questa ragazzina in stallo da due anni, con una voce bellissima ma che aveva bisogno di una aggiustatina a livello di immagine. Mi disse letteralmente: “è molto brava, ma non si può proprio guardare”. E’ venuta da me a Milano per una settimana, l’ho portata nei locali che frequentavo io, facendole assorbire tutto ciò che avevo conosciuto a Londra. Calcola che all’epoca il punk in Italia non sapevano neanche cosa fosse. Le ho fatto un transfert del mio modo di essere, lei ha saputo farlo suo ed è diventata subito Anna Oxa».

In realtà, se proprio vogliamo fare i pignoli, la storia di Sanremo si incrocia con la tua anche nel 2003, quando firmi come regista il videoclip ufficiale di “Morirò d’amore” di Giuni Russo…

«Ah sì, anche se quel video ha rappresentato per me una grande amarezza, perchè Giuni lo mescolò con delle immagini girate da Franco Battiato. Lei mi disse che preferiva la mia versione, ma non poteva non inserire anche l’altra, perchè lui le aveva procacciato quel contratto discografico. Le solite cose, insomma. Di conseguenza il risultato del videoclip fu un po’ troppo pasticciato per i miei gusti. Ero soltanto dispiaciuto poiché lo avevo fatto volentieri e gratuitamente, perchè consideravo Giuni un’amica, oltre che una grandissima artista».

Ivan Cattaneo

Sei considerato da molti un’icona degli anni ’80, è un titolo che ti fa piacere e in cui ti riconosci?

«Penso che le etichette siano sempre molto limitanti, però vanno di moda in questa epoca, perchè meno conosci qualcosa e più tendi a dare delle definizioni. Per uno che conosce soltanto “Una zebra a pois”, non faccio fatica a credere che sia così. Sai, dipende molto dalla promozione e dal tipo di pubblicità, ma se un artista continua a creare appartiene a tutte le epoche. Io sono andato avanti, non sono mai rimasto fermo, ho fatto “Il cuore è nudo… e i pesci cantano” con arrangiamenti dei Datura e un sound molto anni ’90, ma sempre proiettato nel futuro, cercando di evolvermi. Purtroppo se esci fuori da determinati circuiti, rischi che questi progetti passino inosservati».

A proposito di tv, come valuti a distanza di tempo l’esperienza di Music Farm? Rispetto ad altri format, alla fine, si faceva musica per davvero…

«E’ stata una bella esperienza, ho dei bellissimi ricordi. C’era un bel laboratorio musicale, poi la cornice era meravigliosa, in Umbria, non molto lontano dal CET di Mogol. Ricordo “Music Farm” con piacere, anche per il privilegio di aver avuto al mio fianco compagni di viaggio del calibro di Loredana Bertè, Riccardo Fogli e i Ricchi e Poveri. Ero in buona compagnia diciamo (sorride, ndr)».

Quali sono i tuoi prossimi progetti in cantiere? Cosa dobbiamo aspettarci dal tuo estro creativo?

«Tra i miei prossimi passi artistici c’è un libro che sto scrivendo, un video-libro ricchissimo di immagini, accompagnato da una chiavetta USB che include anche delle nuove canzoni, oltre a pezzi che ho scritto per altri colleghi e per la prima volta cantati da me, tra cui “La carezza che mi manca” di Patty Pravo e “Abbaio alla luna” di Al Bano. Il titolo di questo progetto sarà “Titanic Orchestra” e dovrebbe uscire nel 2022. Come sempre, le varie forme d’arte si mescoleranno e daranno vita, poi, anche ad uno spettacolo teatrale».

Per concludere, qual è l’insegnamento più importante che senti di aver appreso dalla musica fino ad oggi?

«Sai, la cultura può essere rappresentata da un bel quadro, da una bella canzone o da una bella poesia che ti conforta. L’arte è consolatrice. Se tutto rimane nell’ambito privato e tarapeutico va bene, ma quando la musica si scontra con il business, la televisione e il mondo corrotto che la circonda, può diventare davvero pericolosa. Il monito che faccio ad ogni artista, ma anche e soprattutto a me stesso, è quello di cercare di star lontani il più possibile da questi demoni».

Ivan-Cattaneo-Polisex

© foto di Nikka Dimroci

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Nico Donvito

Nato a Milano nel 1986, è un giornalista attivo in ambito musicale. Attraverso il suo impegno professionale, tra interviste e recensioni, pone sempre al centro della sua narrazione la passione per la buona musica, per la scrittura e per l’arte del racconto. Nel 2022 ha scritto il libro "Sanremo il Festival – Dall’Italia del boom al rock dei Måneskin" (edito D’idee), seguito da "Canzoni nel cassetto" (edito Volo Libero), impreziosito dalla prefazione di Vincenzo Mollica, scritto a quattro mani con Marco Rettani. L'anno seguente, sempre in coppia con Rettani, firma "Ho vinto il Festival di Sanremo" (edito La Bussola), con introduzione curata da Amadeus e il racconto di trenta vincitori della rassegna canora. Tale opera si è aggiudicata il Premio letterario Gianni Ravera 2024.