Che cosa deve davvero la musica italiana di oggi al produttore numero uno dei nostri anni?
Non a caso ho scelto di citare, nel titolo di questa mia nuova riflessione, il capolavoro di Lev Tolstoj pubblicato tra il 1865 e il 1869 nella Russia zarista di Alessandro II. L’assoluto genio di Tolstoj scrisse, nel suo romanzo storico più voluminoso, una frase che, alla mia ennesima rilettura di questa opera, mi è risultata quanto mai rilevatrice: “tutte le idee che hanno enormi conseguenze sono sempre idee semplici”. Mai citazione letteraria mi risultò più adatta alla riflessione musicale che stavo portando avanti da qualche giorno nella mia testa.
Michele Canova Iorfida, padovano di nascita e di formazione, inizia a produrre album fin dai 19 anni, ma è l’incontro con l’esordiente Tiziano Ferro a cambiargli la vita. E’ il 2001 quando esce “Rosso relativo”, primo album del giovane cantautore di Latina che, sotto la guida discografica di Mara Maionchi e Alberto Salerno, ha per produttore proprio un altrettanto giovane Canova. Tra i due nasce un rapporto di collaborazione che dura tutt’oggi e che ha permesso al Canova dei nostri giorni (il suo illustre antenato Antonio sempre d’arte si occupava, ma altra era la sua specializzazione) di diventare ben presto il punto di riferimento della produzione italiana. Jovanotti, Eros Ramazzotti, Giorgia, Alessandra Amoroso, Marco Mengoni, Francesco Renga, Giusy Ferreri, Francesca Michielin, Adriano Celentano, Fabri Fibra, Nina Zilli, Patty Pravo sono arrivati nel corso degli ultimi quindici anni alla sua corte nobilitandone il curriculum e rendendolo il produttore più in voga, conteso e di maggior successo della discografia italiana (recenti l’annuncio del ritorno nel suo “team” di Nina Zilli e l’arrivo di Elodie e Annalisa che vanno a “bilanciare” l’addio, o l’arrivederci, di Jovanotti).
La domanda che, però, mi porgo quest’oggi è, invece, un’altra: che cosa ha davvero dato Michele Canova Iorfida alla musica italiana? Quali sono i suoi meriti e quali, se presenti, le sue colpe? Per rispondere altra via non c’è che analizzare la sua attività musicale: l’essenza vera della sua musica, del suo suono e della sua produzione è l’elettronica, il sintetico, la sperimentazione moderna. Non è difficile, e non sarei il primo a farlo, additare al mio conterraneo la maggior responsabilità, positiva o meno, nello sviluppo (perfettamente ritardato in pieno italian style) dell’electro-pop forgiato da tastiere ed orchestre sintetiche, casse in quattro e l’utilizzo sfrenato (e talvolta incontrollato) delle doppie voci, che altro non sono che uno strumento per rendere palese l’inespressività, l’incapacità tecnica e l’appiattimento vocale più totale degli artisti che oramai, sempre più, ne approfittano in un modo spropositato.
D’altro canto, però, mi sento anche di dover sottolineare i meriti di un personaggio che, da dietro le quinte, ha saputo in pochi anni rivoluzionare totalmente lo stile e la cifra musicale italiana tanto da renderla irriconoscibile rispetto agli orchestrali, melodici e strappalacrime anni ’90. Senza prendere in esame l’immensa mole di capolavori prodotti al fianco del genio assoluto di Tiziano Ferro (abilmente indirizzato, questo va ripetuto, dai suoi mentori iniziali: Mara Maionchi e Alberto Salerno), a Canova vanno riconosciuti successi come Guerriero di Marco Mengoni (vero e proprio brano-capostipite del leggero electro-pop canoviano), L’amore esiste di Francesca Michielin o Il mio giorno più bello nel mondo di Francesco Renga (brano capace di rilanciare in grande stile una carriera che non viveva certo il suo momento più felice).
Omicida della melodia e del sentire tradizionale del gusto musicale italiano, da una parte, ma anche fautore della più grande rivoluzione della nostra storia (alla faccia del rap) nonchè attento scrutatore e anticipatore (in Italia, all’estero ovviamente ci pensano sempre parecchio prima) delle nuove mode e delle tendenze più fruttifere. Accusato e glorificato. Per tornare all’incipit, “guerra e pace”.
Ilario Luisetto
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