Sanremo Story: la rubrica che ripercorre le tappe fondamentali del Festival della canzone italiana, attraverso aneddoti e approfondimenti. A cura di Nico Donvito
Per molti il Festival di Sanremo è quell’evento televisivo che catalizza davanti allo schermo per una settimana all’anno, uno spettacolo colorato, uno psicodramma tragicomico collettivo, un carrozzone fiorito stracolmo di cantanti, presentatori e vallette. Negli anni, ne abbiamo lette e sentite parecchie di definizioni, tutte profondamente vere, ma nessuna realmente corretta. Sanremo Story anni ‘60
Per dare una risposta allo slogan “Perché Sanremo è Sanremo”, è necessario riscoprire la storia di questo grande contenitore che nel tempo si è evoluto, ma senza perdere il proprio spirito. La verità è che il Festival è un vero e proprio fenomeno di costume, la favola musicale più bella di sempre, lo specchio canterino del nostro Paese. Con la sua liturgia, la kermesse non è mai riuscita a mettere d’accordo ammiratori e detrattori, forse in questo alberga la vera fonte del suo duraturo consenso. La rubrica “Sanremo Story” si pone l’obiettivo di raccontare tutto questo e molto altro ancora.
“Sanremo Story”, il boom dei favolosi anni ‘60
Con l’arrivo del nuovo decennio, il Festival di Sanremo ripartì da una rigogliosa e consolidata base. La favola di Mr. Volare aveva trasformato la rassegna in un grande evento musicale di portata internazionale. Il segreto? Aver scommesso sul futuro dando ampio spazio alle nuove leve, pur senza dimenticare il passato includendo i baluardi della vecchia guardia. Chiamiamola pure un’apertura moderata alla modernità, o il tentativo di tenere due piedi in una scarpa, ma questo equilibrio aiutò la rassegna a star dietro ai rapidi cambiamenti della società.
Sul palco del Casinò si affacciò una nuova generazione di cantanti, ragazzi nati poco prima o durante la guerra, figli della ricostruzione e delle mode che arrivavano dall’estero. La distinzione tra autori e interpreti cominciò pian piano a svanire, così come la netta divisione tra tradizionalisti e innovatori. La musica si ascoltava dappertutto, dalla radio alla televisione, dai giradischi in casa ai juke-box nei locali. Vastissima era l’offerta che accompagnava il rilancio socio-culturale del nostro Paese, fungendo da soundtrack del grande miracolo economico italiano.
L’acquisto dei 45 giri non era più appannaggio esclusivo degli adulti, il movimento giovanile cominciò a farsi sentire stravolgendo il mercato, così Sanremo cercò di correre ai ripari estendendo il proprio bouquet di proposte, combinando generi e accontentando vari tipi di pubblico. Quella del 1960 fu l’edizione della conferma, anche se il tris non riuscì a Domenico Modugno che si piazzò al secondo posto con “Libero”, in abbinamento con Teddy Reno. Ad aggiudicarsi il titolo fu “Romantica”, proposta dal debuttante Tony Dallara e dal navigato Renato Rascel, un milanese e un romano, un connubio di quelli vincenti.
Sull’onda del grande successo di “Tintarella di luna”, al Festival del decennale prese parte anche una giovanissima Mina, che racimolò un misero ottavo posto con “È vero”, canzone composta per lei da Umberto Bindi, mentre non raggiunse nemmeno la serata finale la sua seconda proposta “Non sei felice”. Oltre a Dallara e alla futura Tigre di Cremona, debuttò un altro capostipite della scuola degli urlatori: Joe Sentieri, divenuto famoso per il suo saltello, abbinato a Wilma De Angelis per “Quando vien la sera”. Con il passaggio tra i due decenni, infatti, cominciarono ad affermarsi nuove correnti musicali. In primis quella degli “urlatori”, soliti ad eseguire con impeto le canzoni per renderle in qualche modo proprie, in secundis quella dei “cantautori”, coloro i quali scelsero di dare voce ai propri testi, talvolta senza l’ausilio di eccelse doti canore. La personalità fu la conditio sine qua non del progresso, unanovità che pose fine alla lunga stagione dei grandi interpreti che, fino a quel momento, detenevano il monopolio della canzone italiana.
Queste le premesse che portarono alla conferma di Ezio Radaelli, al suo secondo mandato da direttore artistico. Da molti considerato il primo vero patron della kermesse, il suo più grande rammarico fu quello di non essere riuscito a portare in gara Fred Buscaglione, scomparso qualche mese prima a causa di un incidente stradale. Non prese parte alla partita nemmeno Modugno, costretto a casa da un infortunio.
Nel selezionare il cast, Radaelli rivelò di aver ricevuto pressioni e raccomandazioni da generali, deputati, sottosegretari, ministri, sindaci, banchieri e chi più ne ha più ne metta. Non a caso quella del 1961 fu l’edizione che segnò un’ulteriore svolta nella storia della rassegna. Su quarantadue cantanti arruolati, ben venticinque erano esordienti, molti dei quali destinati ad entrare nel firmamento della musica leggera italiana. Infatti, debuttarono Adriano Celentano, Gino Paoli, Milva, Tony Renis, Giorgio Gaber, Little Tony, Jimmy Fontana, Edoardo Vianello, Umberto Bindi, Pino Donaggio e Bruno Martino. Stiamo parlando di eccellenze che, a loro volta, segnarono ed ispirarono le generazioni a venire. Un azzardo che non fu facile da digerire, infatti non mancarono di certo le critiche. La stampa dell’epoca si scagliò contro l’organizzazione, rea di aver selezionato troppi giovani, come se questo fosse un crimine, un peccato capitale.
Un rinnovamento che non venne subito compreso, nonostante in concorso ci fossero motivi destinati a durare nel tempo, come “24mila baci” e “Le mille bolle blu”. Vinse “Al di là”, un brano decisamente più classico, portato in scena da Betty Curtis e Luciano Tajoli. Per il secondo anno consecutivo, ne uscì piuttosto provata Mina, soffocata dalle polemiche, al punto da decidere di non prendere mai più parte alla gara. Una promessa mantenuta. Nel tempo si prese la sua bella rivincita reinterpretando a suo modo le canzoni sanremesi, ottenendo spesso riscontri maggiori degli interpreti originali, regalando una seconda vita a pezzi come E se domani e La voce del silenzio, che in Riviera passarono quasi inosservati.
Nel 1962 l’organizzazione del Festival passò nelle mani di Gianni Ravera, che negli anni cinquanta aveva preso parte alla gara un paio di volte come cantante. Fu meno fortunato del suo predecessore, poiché il livello delle canzoni era nettamente inferiore all’anno antecedente. Claudio Villa e Domenico Modugno si aggiudicarono insieme la vittoria con “Addio addio”, in quello che molti considerarono un vero e proprio “compromesso storico”. Da antagonisti ad alleati, il passo fu breve.
Le canzoni in concorso divennero trentadue, forse anche troppe. Da segnalare due prestigiose presenze della comicità italiana: Gino Bramieri in gara con “Lui andava a cavallo” e Ugo Tognazzi che firmò il testo di “Cose inutili”. A spuntarla nelle classifiche dell’epoca fu soltanto “Quando quando quando” del duo formato da Emilio Pericoli e Tony Renis.
Proprio come accaduto alla coppia Modugno-Dorelli qualche anno prima, la squadra venne riproposta nel 1963, quando i due artisti si ripresentarono battendo la concorrenza con “Uno per tutte”, un brano che strizzava l’occhio al mondo dell’avanspettacolo, dal testo frivolo e spensierato, ma che non superò la prova del tempo. Destino che riguardò un po’ tutte le canzoni di quell’annata, nonostante la commissione selezionatrice fosse presieduta dall’illustrissimo Vittorio De Sica.
L’unico fatto degno di nota fu il debutto di Mike Bongiorno alla conduzione, anche se la Rai cominciò a perdere interesse nei confronti della kermesse, al punto da trasmettere soltanto la serata finale. Al suo posto preferì puntare su trasmissioni considerate più contemporanee, come Canzonissima.
Le prime due edizioni gestite da Ravera inaugurarono una lunga fase di reflusso del Festival. Il pubblico non riusciva ad appassionarsi alle canzoni come un tempo, forse in giro c’era troppa musica, la stessa televisione ne proponeva ormai parecchia, a tutte le ore del giorno e della notte, dalle operette ai musicarelli. Il livello delle produzioni si era abbassato, Sanremo non era più il canale privilegiato dalle etichette discografiche e dagli stessi artisti. Inoltre, gli italiani avevano altro a cui pensare, il boom economico stava per lasciare spazio alla prima crisi del dopoguerra, favorendo un netto cambio di rotta a livello politico, con il primo Governo orientato a sinistra, capeggiato da Aldo Moro.
Per rilanciare una manifestazione che, seppur quattordicenne, sembrava già aver esaurito entusiasmo e idee, si puntò tutto sull’internazionalità. Nel 1964, infatti, la doppia esecuzione venne spartita tra cantanti italiani e ugole straniere, formula che fu ripetuta per le successive cinque edizioni. Così, fra gli altri, approdarono in Riviera star del calibro di Gene Pitney, Ben E. King, gli Yardbirds, Paul Anka, Mal, Rocky Roberts, Antoine, Shirley Bassey, Timi Yuro, i Les Surfs, Petula Clark, Roberto Carlos, i Los Hermanos Rigual, Yoko Kishi, Frankie Avalon, Udo Jürgens, i Rokes, Pat Boone, Vic Dana, Brenton Wood, Dionne Warwick, Marianne Faithfull, Connie Francis, Dalida, Françoise Hardy, Richard Anthony, Sonny Bono, Cher, Wilson Pickett, Louis Armstrong e Stevie Wonder. A pensarci oggi può sembrare incredibile.
Trionfò la giovane sedicenne Gigliola Cinquetti con “Non ho l’età (per amarti)“, eseguita in coppia con l’italo-belga Patricia Carli, ma furono tante le canzoni in linea coi tempi ricordate ancora oggi: da “Un bacio piccolissimo” di Robertino a “Venti chilometri al giorno” di Nicola Arigliano, passando per “Sabato sera” di Bruno Filippini e “Una lacrima sul viso” di Bobby Solo. Quest’ultimo fu escluso dalla gara, reo di aver cantato in playback a causa di una violenta laringite. L’artista romano si prese la sua bella rivalsa l’anno seguente, imponendosi sul gradino più alto del podio con “Se piangi se ridi”, in abbinamento con il collettivo folk statunitense dei The New Christy Minstrels.
Quella del 1965 fu un’annata sulla falsariga della precedente, funzionarono e vennero confermati i cambiamenti apportati dodici mesi prima. L’unica differenza? I big della canzone disertarono la manifestazione, impauriti dal vasto spazio che veniva concesso agli stranieri e alle nuove leve. I nomi più affermati dell’epoca temevano il confronto generazionale, di conseguenza i veterani del Festival rimasero Milva, Pino Donaggio e Betty Curtis. Tra gli esordienti, spiccarono i positivi debutti di Iva Zanicchi, Bruno Lauzi, Ornella Vanoni, Fred Bongusto e Nicola Di Bari.
L’Italia si riprese il suo Sanremo, grazie principalmente a motivi come “Le colline sono in fiore” e, soprattutto, “Io che non vivo (senza te)”, entrambi considerati malinconici, ma rappresentativi della poetica di un irripetibile momento storico. Nel tempo restarono impressi nella memoria collettiva del nostro Paese, divenendo due tra i principali evergreen sbocciati nella Città dei Fiori.
La musica era diventata un vero e proprio fenomeno di costume, oltre che di massa, come testimoniava la diffusione di locali di tendenza quali il Piper, considerato da molti il tempio di una nuova corrente destinata a gettare le basi della discomusic, un culto che avrebbe caratterizzato soprattuto il decennio successivo. Il leggendario club romano di via Tagliamento non era una semplice sala da ballo, bensì la rappresentazione di un sogno che traeva fascino, ispirazione e trasgressione dalle rivoluzioni culturali della Swinging London, del Greenwich Village di Manhattan e del Summer of Love di San Francisco.
Molti ragazzi italiani seguivano con attenzione ciò che all’estero veniva creato e sovvertito, appassionandosi a tematiche di vario stampo, dalla libertà sessuale all’avvento della minigonna. A tenere banco a livello internazionale fu soprattutto la questione della Guerra del Vietnam, con il crescente impegno americano e l’impressionante numero di vittime. Cortei di protesta sfilavano per le vie delle città di tutto il globo, in un movimento scaturito principalmente dai giovani, gli stessi che non avevano vissuto direttamente gli orrori dei due conflitti mondiali, ma che rischiavano di pagarne le conseguenze più care. Mentre il mondo si divideva tra Beatles e Rolling Stones, era in atto una vera e propria ribellione sociale. La musica era diventata un veicolo per esprimere le proprie opinioni, molti gruppi nacquero con questo intento. La chiamavano beat generation.
Sulla scia di questo profondo rinnovamento, andò in scena la sedicesima edizione del Festival di Sanremo, che vide trionfare Domenico Modugno e Gigliola Cinquetti, quarto titolo per lui e secondo per lei. La loro “Dio come ti amo” mise d’accordo un po’ tutti, a discapito dell’esordiente Sergio Endrigo, dato per favorito alla vigilia. Tra gli altri illustri debutti, annoveriamo le presenze di Lucio Dalla, Orietta Berti, Equipe 84 e Caterina Caselli. Ribattezzata “casco d’oro” dalla stampa, quest’ultima si piazzò al secondo posto con la memorabile “Nessuno mi può giudicare”, canzone inizialmente destinata ad Adriano Celentano che, dopo averla provinata, preferì optare per un pezzo decisamente più nelle sue corde. Si trattava de “Il ragazzo della via Gluck”, l’unico motivo di quell’annata a non parlare d’amore. Un atto di accusa contro la speculazione edilizia che, secondo alcuni, avrebbe portato alla deriva e alla graduale perdita dei valori genuini di un tempo. Ideologie anti-urbanistiche che non convinsero le giurie, decretandone l’eliminazione nel corso della seconda serata. Un’esclusione che destò parecchio clamore, anche se le vendite e il tempo ribaltarono clamorosamente questa bocciatura.
Tra le altre novità da segnalare in questa edizione decisamente all’insegna del progresso, spiccarono paradossalmente i motivi più classici, come “Io ti darò di più” e “La notte dell’addio”. Tenne duro, quindi, il cosiddetto genere “melodico moderno”, ideato e ben rappresentato dallo stesso Modugno, assoluto protagonista grazie al suo recitar-cantando che fece scuola alle successive generazioni di cantautori. Uomo di teatro capace di calcare la scena come pochi, Mimmo si impose da subito per aver aperto una strada che non contemplava e non scimmiottava le mode dell’epoca. Prima del suo exploit, i pesi massimi del bel canto erano soliti rifarsi alla grande tradizione melodrammatica italiana, limitandosi ad eseguire e non ad interpretare.
Figlio degli stessi ideali, ma con un carattere decisamente più schivo e ombroso, era Luigi Tenco, un giovane cadetto della scuola genovese con alle spalle diverse opere di successo, come “Mi sono innamorato di te”, “Vedrai vedrai”, “Ho capito che ti amo” e “Lontano lontano”. Nel 1967 fu spronato dai suoi discografici a prendere parte al Festival della canzone italiana, dove si presentò con “Ciao amore ciao”. Il brano raccontava la storia di un contadino che, stanco della vita di campagna e del lavoro nei campi, aveva abbandonato la sua amata per recarsi in città alla ricerca di nuove opportunità lavorative.
Al suo fianco Dalida, vedette francese di origine italiana. Ciò che accadde la notte del 27 gennaio restò impresso nella nostra memoria, una vicenda a tratti avvolta nel mistero. Con l’ipotesi di suicidio si conclusero sbrigativamente le indagini sulla morte di Tenco, ma, negli anni, si contrapposero diverse teorie, anche se su molti punti non venne mai fatta chiarezza.
La diciassettesima edizione di Sanremo fu chiaramente segnata da questa immane tragedia, destinata a lasciare un’impronta dolorosa nella storia della rassegna. In un’Italia già provata dall’Alluvione di Firenze e dalle avvisaglie di un’allarmante decadenza, la morte di Tenco fu ritenuta un fatto scomodo. Gli organizzatori presero la cinica decisione di proseguire il Festival, ignorando completamente il dramma a tutela dello spettacolo. Lo stesso conduttore Mike Bongiorno si limitò a darne menzione: «questa serata comincia con una nota di mestizia per il lutto che ha colpito il mondo della musica leggera, con la scomparsa di un suo valoroso esponente».
Poche parole e si cambiò subito argomento. D’altronde, ai tempi, parlare di suicidio in tv era rigorosamente vietato. Per la mentalità dell’epoca, l’argomento era considerato a tutti gli effetti un tabù, di cui si conosceva l’esistenza, senza che fosse necessario entrare nel merito della questione. Il gesto di Tenco, di fatto, anticipò di pochi mesi il vento sessantottino di cambiamento e di protesta che stava per abbattersi anche sul nostro Paese.
Nonostante i rumors della vigilia, che davano per favorita Ornella Vanoni con “La musica è finita”, a vincere l’edizione più drammatica della storia della manifestazione fu “Non pensare a me”, pezzo dall’appeal canonico e tradizionale, eseguito da Claudio Villa e Iva Zanicchi, guarda caso gli unici artisti che si mostrarono pubblicamente affranti per quanto accaduto, manifestando platealmente il proprio dissenso per la mancata sospensione della gara.
Molti i 45 giri che ottennero successo all’indomani della kermesse, da “L’immensità” della coppia Dorelli-Don Backy a “Cuore matto” che consacrò il mito di Little Tony, passando per “Bisogna saper perdere” di Lucio Dalla e dei Rokes, a “Quando dico che ti amo” scritta da Tony Renis per l’esordiente Annarita Spinaci e “Io tu e le rose” di Orietta Berti, fino a “La rivoluzione” di Gianni Pettenati e “Proposta” de I giganti, una delle prime canzoni pacifiste presenti in concorso.
Ancora attoniti dalla scomparsa di Luigi Tenco, dodici mesi dopo, i membri della commissione selezionatrice non ritennero idoneo far partecipare un brano come “Meraviglioso”, poiché raccontava di un mancato suicidio. Un inno alla vita, che fu ritenuto in qualche modo inopportuno, indelicato. Di conseguenza, Domenico Modugno prese parte alla gara con “Il posto mio”, in abbinamento con Tony Renis. Il Festival di Sanremo divenne maggiorenne, con il proposito di risorgere dalle proprie ceneri. Ad imporsi fu la musica d’autore, ben rappresentata da Sergio Endrigo e da Roberto Carlos con “Canzone per te”.
Star di questa edizione fu Louis Armstrong, leggendario trombettista protagonista di un momento a dir poco indimenticabile. Il musicista americano, in gara con “Mi va di cantare”, era convinto di doversi esibire in una vera e propria jam session, per cui rimase sul palco a suonare con la band per diversi minuti, credendo che il cachet fosse troppo alto per eseguire una sola canzone. Uno spettacolo senza precedenti che fu interrotto da un giovane Pippo Baudo, alla prima delle sue tredici conduzioni, a causa del rigido regolamento che prevedeva per tutti i concorrenti lo stesso tempo di permanenza sul palcoscenico.
Ancora una volta gli organizzatori optarono per la linea dell’oscurantismo, lasciando fuori dalle porte del Casinò i fatti di cronaca, a partire dal violento evento sismico che aveva colpito nella Sicilia occidentale la Valle del Belice, appena due settimane prima dell’inizio della kermesse. Seppur presentato da un siciliano, Sanremo 1968 ignorò completamente l’accaduto. Nessuna particolare attenzione anche nei confronti della contestazione in atto, ossia del movimento poi ribattezzato “sessantotto”, un fenomeno socio-culturale che spaccò in due l’opinione pubblica, tra scontri e proteste che trasformarono completamente la nostra società. Per la prima volta si cominciò a parlare in piazza di ideali, oltre che di diritti civili, passando per temi politici e sociali, a partire dalle discriminazioni razziali che colpivano gli afroamericani fino all’imperialismo della Guerra del Vietnam che, proprio nei giorni della messa in onda del Festival, si avviava ad una decisiva svolta con l’offensiva del Têt, che determinò la fine dell’escalation statunitense e la resa del presidente Johnson.
In questo clima di profonda valenza storica, Sanremo viveva nella sua patinata bolla, come una sorta di oasi felice. Sul palco si cantava e dietro le quinte ci si azzuffava per i diritti d’autore, celebre la contesa tra Adriano Celentano e Don Backy, che determinò l’uscita di quest’ultimo dal Clan, l’etichetta del Molleggiato. Circa venti milioni di italiani seguirono la serata finale della rassegna, favorendo la commercializzazione di numerosi 45 giri, tra cui: “Deborah” del debuttante Fausto Leali, “La siepe” dell’altro autorevole esordiente Al Bano Carrisi, “Casa bianca” di Ornella Vanoni e Marisa Sannia, “La tramontana” di Antoine, “Quando m’innamoro” di Anna Identici e “Gli occhi miei” di Dino.
Dodici mesi più tardi il sentimento di contestazione si diffuse a macchia d’olio su tutta la penisola, con le proteste che arrivarono naturalmente anche in Riviera. Nei giardini di Villa Ormond, a due chilometri e mezzo dal Casinò, andò in scena il Controfestival indetto da Dario Fo e Franca Rame. Scioperi e manifestazioni minacciarono il corretto svolgimento della gara, di conseguenza Sanremo 1969 non iniziò con i migliori auspici.
Ricordiamo questa edizione per l’unica storica partecipazione di Lucio Battisti che, dopo aver firmato “Non prego per te” di Mino Reitano e “La farfalla impazzita” di Johnny Dorelli nel corso delle due annate precedenti, decise di prende parte alla gara con “Un’avventura”, le cui vendite superarono di gran lunga quelle della canzone vincitrice: “Zingara”, portata in scena da Iva Zanicchi e Bobby Solo. Un trionfo di misura, con soli nove voti di scarto sullaseconda classificata Lontano dagli occhi, interpretata dalla britannica Mary Hopkin e dal campione uscente Sergio Endrigo. Tra i debutti eccellenti, emersero Rita Pavone, i Dik Dik, Gabriella Ferri e Nada con la celebre “Ma che freddo fa”.
Ottennero lauti consensi commerciali anche “La pioggia” di Gigliola Cinquetti e France Gall, “Bada bambina” di Little Tony e Mario Zelinotti, “Cosa hai messo nel caffè” di Riccardo Del Turco e Antoine e “Quando l’amore diventa poesia” di Massimo Ranieri e Orietta Berti. Nessuna delle ventiquattro canzoni in concorso si preoccupò di affrontare tematiche sociali che trovassero una rispondenza nel comune sentire dell’epoca, oltre che un’affinità con quel clima di profondo cambiamento. Gli amori infranti monopolizzarono testualmente la scena. Una scelta socialmente voluta, ma moralmente e storicamente poco comprensibile…
Nico Donvito
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