A tu per tu con il cantautore milanese, in uscita con il suo trentacinquesimo progetto discografico
“Alma” é il titolo del nuovo album di Enrico Ruggeri, un lavoro essenziale nel sound e nelle intenzioni che arriva a tre anni di distanza dal suo ultimo progetto da solista, dopo la preziosa reunion con i Decibel. Due dischi, due tournée e un Festival di Sanremo in compagnia degli amici di sempre Silvio Capeccia, Fulvio Muzio, un’esperienza servita per ricaricare le pile e trovare il giusto fanciullesco entusiasmo per rimettersi in studio a dar vita a questo sua trentacinquesima fatica discografica. Addentriamoci all’avanscoperta della sua anima, approfondendo i momenti salienti della sua carriera.
Ciao Enrico, partiamo da “Alma”, osservando questa bellissima cover realizzata da Dario Ballantini, ti domando: cosa hai voluto dipingere e quali colori hai voluto utilizzare in questo disco?
«Chiaroscuri, come sempre. Questo è un disco molto particolare per me, intanto perché arriva a tre anni di distanza dal mio ultimo progetto in studio da solo, in mezzo c’è stata una bella avventura con i Decibel, una reunion molto più lunga e complessa rispetto alle aspettative, eravamo partiti col fare un singolo e qualche data dal vivo, invece abbiamo fatto due dischi e due tournée, con tanto di Festival di Sanremo annesso. Insomma, un’esperienza molto bella e importante. Per cui non volevo qualcosa che suonasse come un album dei Decibel senza i Decibel, ma nemmeno un lavoro che ricordasse un Ruggeri prima di questa esperienza, il lavoro maggiore è stato sulle sonorità: ho la fortuna di avere il mio studio, mi sono chiuso lì con la mia band senza alcun tipo di preproduzione, istintivamente, proprio come si dovrebbero fare i dischi, almeno secondo me».
Dunque, un’alma/anima puramente analogica?
«Assolutamente sì, il computer ci è servito solo per registrare, ma è l’uomo che detta le regole del gioco e genera l’intuizione, non la macchina. Non abbiamo utilizzato nessun tipo di plugin, i suoni che abbiamo creato sono quelli che ciascun musicista possiede con il proprio strumento. Arrangiamenti fatti anche a sottrarre: ad esempio, ci sono alcuni punti in cui canto solo su basso e batteria, il tutto molto adattabile in un contesto dal vivo».
Un progetto anticipato dal singolo “Come lacrime nella pioggia”, brano che ha debuttato in top20 nella rotazione radiofonica. Un bel risultato?
«Ogni tanto succede che si allineano un po’ di pianeti (sorride, ndr): è una notizia che ho appreso con estremo piacere, devo dirti anche inaspettatamente. Quando eravamo in studio, in realtà, la parola “radiofonico” era un po’ il nemico, per cui non abbiamo cercato a tutti i costi di compiacere qualcuno se non noi stessi, proprio per questa ragione la considero una doppia soddisfazione».
Cosa mi racconti dell’incontro con Ermal Meta?
«Con Ermal siamo amici, lo dico davvero, oggi come oggi mi rendo conto che questa è una parola un po’ abusata, ma tra i colleghi lui è uno dei pochi che posso considerare tale. In qualche modo sono stato il primo a farlo esibire nei miei concerti non appena ha intrapreso la sua carriera da solista, in più abbiamo un vissuto simile e comune: siamo partiti entrambi da una band e soffriamo entrambi di iperproduzione, scriviamo un sacco di canzoni, non abbiamo ancora finito un progetto che già pensiamo a quello successivo pur di rimanere sul palco. Insomma, ci somigliamo molto e ci legano parecchie cose, in più lui era perfetto per la sensibilità di questo pezzo».
Quarant’anni di carriera, trentacinque album in studio, tantissime collaborazioni. Ho proprio voglia di chiedertelo: cosa ti spinge a mantenere viva questa voglia che arde così focosamente?
«La speranza di avere delle cose da dire, il piacere di giocare con la musica, la curiosità di scoprire ogni volta se ci sono ancora delle potenzialità e la necessità di voler cantare canzoni nuove, di andare oltre la mia comfort zone. So benissimo che se salgo sul palco e canto “Mistero”, “Il mare d’inverno” e un’altra dozzina di pezzi, il pubblico è contento lo stesso, personalmente trovo ancora stimolante proporre cose nuove».
Hai annunciato un tour live a due facce: alcuni live in acustico ed altri in versione rock elettronica. Come mai?
«Per la parte acustica avevo voglia di scarnificare le canzoni e suonarle nella maniera più nitida possibile, sia quelle nuove che qualcuna più vecchia, al tempo stesso avevo voglia di menare duro nei club (sorride, ndr). Sai, mi dibatto sempre tra queste due anime, in più ho sempre il rammarico di non riuscire a cantare tutti i pezzi più importanti, più il repertorio si allarga più diventa difficile fare anche soltanto un singolo per ogni album. Quindi, la necessità di cambiare un po’ le carte e alternare la scaletta diventa fondamentale e inevitabile».
Un pensiero su Sanremo Young, cosa ti ha spinto ad accettare di tornare dietro il bancone di un talent show?
«Innanzitutto non è un talent così impegnativo o traumatico, nel senso che la considero un’esperienza divertente e non particolarmente competitiva. X-Factor è sicuramente una macchina più complicata, mentre a Sanremo Young ci sono giovani ragazzi che stanno muovendo i loro primi passi, il mio compito è semplicemente di dare loro dei consigli e dire la mia, in più è stata l’occasione per rivedere un po’ di amici, come ad esempio Shel Shapiro che è stato il primo produttore dei Decibel».
© foto di Angelo Trani
Cosa pensi dell’attuale scenario musicale?
«Non sono tanto esperto in realtà. Tutte le volte mi ripropongo di allargare la mia conoscenza, poi puntualmente arrivo a casa e mi ascolto David Bowie, i Roxy Music, Emerson Lake & Palmer: gli artisti con cui sono cresciuto e la musica che in qualche modo mi fa star bene. Faccio un po’ fatica ad interessarmi a progetti nuovi, sento ogni tanto anche cose interessanti, ma fondamentalmente sono disinformato».
Sei stato l’antesignano del punk in Italia, un genere che all’epoca ha dettato tendenza ma che non ha mai spopolato o sostituito la musica pop. Come ti spieghi l’attuale presa di potere del rap?
«Comprendo il tuo ragionamento, sia il punk che l’hip hop hanno delle analogie perché possono essere considerati generi da élite, per nulla mainstream. Beh, il motivo è che il mercato ha spostato tutti questi personaggi verso il mondo dei bambini, il punk non poteva funzionare con i più piccoli, mentre il rap e la trap sono diventate la musica degli adolescenti. Ho un figlio di tredici anni che ogni due mesi cambia ascolti, per lui la Dark Polo Gang è già preistoria. C’è tutto un business che una volta non c’era, i ragazzini possiedono gli smartphone e possono investire i loro risparmi nella musica, prima era più complicato, dovevi andare dalla mamma a farti dare i soldi per comprare il disco fisico. In qualche modo si è aperta una nuova fetta di mercato per un pubblico che non aveva la propria musica da ascoltare».
A proposito della parola “bivio”, per citare il titolo di una tua celebre trasmissione televisiva, c’è un momento della tua carriera in cui hai avvertito una sorta di svolta? L’istante in cui le strade potevano andare in direzioni completamente differenti
«Probabilmente quando ho iniziato la carriera da solista, perché pensavo di ereditare i fan dei Decibel ma così non è stato, mentre ho dovuto ricominciare tutto da capo, di fatti il mio primo disco “Champagne Molotov” non vendette praticamente nulla. Già con il secondo “Polvere” qualcosa ha cominciato a muoversi, fino a quando la macchina si è rimessa fortunatamente in moto».
Per concludere Enrico, in che direzione andrà da ora in poi la tua musica?
«Non sono in grado di prevederlo, sicuramente continuerà ad essere un po’ controcorrente, mi piace, mi ci crogiolo, mi diverte. Non sono mai stato un calcolatore, questa è una domanda a cui non avrei potuto risponderti nemmeno in passato, sia che tu me l’avessi fatta nell’83, nel ’93 o nel 2003, seguo semplicemente l’istinto e quello che mi pare faccio, soprattutto in questo momento dove onestamente non ho più nulla da dover dimostrare. Chi mi segue sa che proporrò sempre qualcosa di nuovo che probabilmente sarà diverso da ciò che ho fatto in precedenza. D’altronde l’obiettivo finale di un cantautore è quello di raccontare storie, niente di più, niente di meno».
Nico Donvito
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