A tu per tu con il cantautore siciliano, in uscita con il suo quarto disco “Ho bisogno di dirti domani“
Tempo di nuova musica per Nicolò Carnesi, artista palermitano alla sua quarta prova discografica con “Ho bisogno di dirti domani“, un concept album sul tempo e le sue mille sfaccettature, declinazioni e contraddizioni. Dopo aver pubblicato “Gli eroi non escono il sabato” nel 2012, “Ho una galassia nell’armadio” nel 2014 e “Bellissima noia” nel 2016, l’ispirato cantautore fa il suo ritorno a tre anni di distanza dal suo ultimo progetto, con un disco completo che mette in luce la propria maturità artistica. Dieci gli inediti presenti in scaletta, presentati e proposti dal vivo nella sua nuova tournée partita da Bologna lo scorso 23 novembre, proseguita da Milano, Pisa, Roma e che riprenderà il prossimo 13 dicembre dal Mood Social Club di Rende (CS), il 14 dicembre dal Mercato Nuovo di Taranto, il 25 dicembre da I Candelai di Palermo e il 29 dicembre dal Retronouveau di Messina. In occasione di questa breve sosta, abbiamo raggiunto telefonicamente l’artista, per approfondire la conoscenza della sua visione musicale.
Ciao Nicolò, benvenuto su RecensiamoMusica. Partiamo da una panoramica generale di “Ho bisogno di dirti domani”, il tuo nuovo album pubblicato lo scorso 11 ottobre, quali tematiche e che tipo di sonorità hai voluto abbracciare?
«Le tematiche sono abbastanza esplicite e chiare leggendo la scaletta, o perlomeno quello che è il fil rouge di tutto il disco, che è appunto il tempo, una sorta di scenario per raccontare le varie storie presenti. Le sonorità accompagnano fondamentalmente questi concetti, ad esempio le chitarre sono appositamente in linea, a raffigurare e rappresentare il ticchettio di un orologio, quindi lo scorrere del tempo. Poi ci sono momenti in cui quasi vado di flusso di coscienza, i pensieri personali li canto con un falsetto effettato, con i sintetizzatori che riescono a raccontare attraverso le loro timbriche ciò che di sintetico c’è nel nostro tempo, per esempio il fatto che non si sceglie quasi più niente, che siamo vittime degli algoritmi, insomma la freddezza nascosta dietro le dinamiche che si avvicendano oggi».
Un riflessione sul tempo, un concetto sempre più astratto al giorno d’oggi. Tu hai impiegato tre anni per fare un disco, altri ci mettono tre mesi. E’ un’epoca strana perché da una parte sembra che tutto vada veloce e poi, ad esempio, per un’opera pubblica importante come il MOSE diciotto sembrano non bastare. Qual è il tuo concetto del tempo?
«Oggi la mia osservazione è quella che non bisogna assolutamente perdere questo benedetto tempo, anche a costo di risultare approssimativi o di lasciare che qualcun altro faccia per noi. Se penso alla fruizione della musica, oramai, è quasi esclusivamente così, da una parte con Spotify tendiamo a decidere quello che ci piace, ma lasciamo anche fare agli algoritmi tutto il resto del lavoro, perché è più facile e più comodo, così puoi dedicarti contemporaneamente a qualcos’altro. La musica è diventata una sorta di sottofondo della nostra esistenza, ci dedichiamo sempre meno in maniera attiva all’ascolto e alla fruizione dell’arte in generale. La sensazione è che tutto sia diventato una sorta di fast food, chi impiatta per primo vince. In più, poi, ci sono anche i paradossi che dici tu».
Pensi che l’avvento della tecnologia, in particolare del web, abbia portato più vantaggi o svantaggi alla nostra società?
«Guarda, secondo me, nell’evoluzione tecnologica non ci sono né vantaggi né svantaggi, sta a noi utilizzare al meglio questi strumenti. Nella storia le masse non hanno mai fatto niente di buono, sono sempre stati i singoli a cambiare le cose, la tendenza della moda è quella di rendere tutti noi il più simile possibile. Nel momento in cui internet ha smesso di essere un luogo di nicchia, diventando parte stessa del nostro sistema economico e sociale, la tecnologia finisce per rivelarsi controproducente, ma questo non è colpa del mezzo, bensì una responsabilità delle scelte umane».
Quindi, avendone la possibilità, rinasceresti in questa precisa epoca o c’è un particolare decennio che consideri più vicino al tuo modo d’intendere la musica?
«Alla fine il passato, per quanto possa essere in alcune epoche attraente, non sarà mai stimolante quanto il futuro, nonostante un mio pensiero di fondo abbastanza pessimista della vita. Per cui, se possedessi una macchina del tempo andrei sicuramente in avanti, per quella sensazione che ci fà sentire vivi, fondamentalmente per la speranza che qualcosa di diverso e di bello possa accadere. La tendenza ad azzardare, a buttarsi verso l’ignoto, è più forte rispetto alla sicurezza del voltarsi indietro».
Che ruolo gioca la musica nella tua vita di tutti i giorni?
«Per me fondamentale, è una delle cose che faccio prima di addormentarmi è una delle prime quando mi sveglio. La musica per quanto mi riguarda è molto simile all’amore, non posso farne a meno, sin da quando sono ragazzino, fa parte di me. Essendo sia un fruitore che un musicista, è anche difficile vivere questo conflitto, È come vivere una relazione con i suoi alti e bassi. Di questi tempi proporre un determinato tipo di musica è una vera e propria lotta, rispetto a quello che viene dato in pasto alle persone, questo è molto pericoloso per quello che potrà succedere in futuro, secondo me non ci sono più la voglia, l’abitudine e l’interesse rispetto a cose più complesse. Il rischio è quello dell’appiattimento totale, un Paese che si livella nell’arte e nella cultura finisce per arenarsi in tutto il resto, dalle idee alla politica, secondo me l’Italia in questo momento è un paese che subisce molto questa cosa, basti vedere i sondaggi elettorali. C’è molto cinismo, nichilismo e tanta ignoranza, questo va detto, che comunque è una conseguenza, non esclusivamente una causa».
Ti senti rappresentato dall’attuale scenario discografico e da ciò che si sente oggi in giro?
«In generale ci sono tante cose contemporanee che mi piacciono e che ascolto volentieri, da cui prendo spunto, soprattutto all’estero, ma c’è qualcosa anche in Italia che trovo molto interessante. Valutando i miei gusti, non riesco ad intercettare determinate proposte italiane di oggi, semplicemente perché non mi arrivano, tante altre generalmente sì. Posso farti dei nomi di artisti che hanno influenzato in maniera abbastanza evidente le mie produzioni, come Bon Iver, Deerhunter, Tame Impala, Sufjan Stevens, Iosonouncane, Brunori Sas, gruppi e musicisti che riescono a proporre qualcosa di alternativo nel vero senso della parola».
Analizzando il tuo percorso sino a qui, credi di aver raggiunto il giusto equilibrio tra chi sei e chi vorresti essere?
«È abbastanza semplice rispondere a questa domanda, perché altrimenti non avrei più niente da dire e da fare. In realtà, non ci penso nemmeno, perché se comincio a riflettere su questa cosa entro in un loop mentale pazzesco, perché poi tendo ad ingrandire la cosa all’universo, a quel punto perdo, è un gioco in cui vince il banco. L’inconscio lo fa molto spesso ma, secondo me, la mente deve cercare di allontanare queste presunzioni, visto che sono solo un essere umano sperduto in mezzo a tutto il resto. Ti poni sicuramente degli obiettivi, la speranza che ho è quella di continuare a fare musica in maniera sostenibile, che è già un obiettivo molto importante di questi tempi. Per il resto non ho particolari richieste, mi accontento di quello che mi fa emozionare e divertire nella vita».
Per concludere, dove e a chi ti piacerebbe arrivare attraverso questo disco in particolare e la tua musica in generale?
«Bella domanda, credo che nel corso degli anni siano state parecchie le lezioni, sia positive che negative. Lavorare con la musica ti aiuta a capire in fretta come funziona il mondo, perché ogni sistema è collegato. Tra le tante cose, una lezione è sicuramente l’aver capito che bisogna dedicare del tempo a ciò che ti piace, ci vogliono costanza e dedizione, i sacrifici sono all’ordine del giorno ma, col senno di poi, ne vale sempre la pena».
© foto di Stefano Masselli
Nico Donvito
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