A poche ore dalla conclusione dell’ultima serata della popolare kermesse, ecco il nostro bilancio
Sarà ricordato come il Festival del distanziamento, delle mascherine e dei tamponi, questo Sanremo 2021 seguito da molti in DAD, in un Teatro Ariston a tratti irriconoscibile, che non avremmo mai immaginato di vedere totalmente vuoto durante le cinque serate della manifestazione canora più amata dagli italiani. Con le sue poltroncine rosse e gli applausi finti, lo spettacolo andato in scena ha posto l’accento sia sul terribile momento che stiamo vivendo, ma anche e soprattutto sulla vita che ci aspetta una volta debellato questo maledetto virus, su tutto ciò che non abbiamo perso e che torneremo ad assaporare presto.
Un messaggio importante di speranza, volto a rinvigorire un intero settore penalizzato dall’indifferenza delle istituzioni, una categoria che non ha mai smesso di esercitare le proprie funzioni, seppur da remoto. La vittoria simbolica dei Måneskin non fa altro che evidenziare la rabbia e il malcontento che, attenzione, sono decisamente più apprezzabili della rassegnazione o, peggio ancora, della negazione. Nel giro di dodici mesi siamo passati da un liberatorio “Fai rumore” a questo ammutolente “Zitti e buoni”, due titoli che fotografano un profondo e palese cambiamento sociale.
Il Festival è sempre stato in grado di scandire le fasi di transizione del nostro Paese, attraversando le varie epoche, raccontandoci i nostri usi e i nostri costumi, con uno sguardo sempre attento rivolto all’attualità, a tutto ciò che ci circonda. Ricorderemo Sanremo 2021 come un’edizione piena di colori, in un momento storico dalle gradazioni tendenti al grigio. Un grande plauso al direttore artistico Amadeus, che ha dato il dato il massimo per riuscire a ravvivare l’atmosfera spettrale di una cittadina drammaticamente gemellata agli altri 7.903 comuni sparsi per la nostra penisola, isole comprese.
Coadiuvato dalla sua squadra, dalla Rai e dall’immancabile Fiorello, il padrone di casa è riuscito nel complesso compito di mettere in scena l’edizione del Festival più complicata della storia, senza farcelo pesare, regalandoci leggerezza, riaccendendo a pieno ritmo la macchina dell’intrattenimento. Doveroso sottolineare il livello qualitativo delle proposte musicali, indubbiamente alto, con un cast che ha messo a tacere le polemiche della vigilia, grazie ad una rosa di cantanti ricca di conferme e di scommesse vinte. Un ricambio generazionale necessario, in realtà già avvenuto da tempo e che bisognava sdoganare con urgenza anche sul palco dell’Ariston.
Vincono la trasgressione, l’erotismo e il rock dei Måneskin, con l’orchestra che si alza e suona in piedi, un’immagine che resterà negli annali e che, per un attimo, ha ricordato qualcosa di molto vicino all’Arezzo Wave piuttosto che al Festival di Sanremo. Vince anche l’eleganza senza tempo di Orietta Berti, mista all’innovazione proposta dall’esercito di nuove leve, molti dei quali non sono ancora esplosi, ma che avranno modo e tempo per riscattarsi fino a diventare i veri big di domani. Tra questi ci sono sicuramente Aiello, Fulminacci, Gaia, Fasma e Random, oltre alle bellissime sorprese di Madame e de La Rappresentante di Lista.
Conquistano i pezzi di Willie Peyote e Colapesce e Dimartino, senza disdegnare la tradizione rappresentata su larga scala da Ermal Meta, Arisa, Noemi, Annalisa e Malika Ayane. Resteranno sia la canzone che la performance registrata di Irama, per motivi naturalmente diversi. Ricorderemo i quadri di Achille Lauro, le belle presenze femminili di Elodie e di Matilda De Angelis, le ospitate di Laura Pausini, de Il Volo e di Ornella Vanoni e tutti i tentativi, riusciti o meno, di intrattenere il pubblico in un momento come questo. Un Festival all’insegna dell’italianità e della sobrietà, non quello della ripartenza come avevamo un po’ tutti sperato, ma degno di essere andato in onda nonostante le critiche.
Ah sì, le critiche, questa specie di hobby ultra praticato che ci spinge ad improvvisarci tutti opinionisti, allenatori e virologi, commentatori della qualunque, anticonformisti e dissidenti per partito preso. Personalmente, mi proclamo critico nei confronti delle critiche gratuite, le stesse che non hanno risparmiato l’Ama-bis e che non porteranno probabilmente all’Ama-ter. La chiusura di un cerchio? Sarebbe un vero peccato, in primis per la musica, per quanto fatto di concreto in questi ultimi due anni. Non voglio rassegnarmi all’idea che tra meno di dodici mesi possa esserci l’ennesimo dietro front, perchè la storia del Festival pullula di rivoluzioni a metà, di cambi di guardia e di clamorosi passi indietro.
Voglio augurarmi per il bene del Festival che Amadeus rivaluti la sua posizione, a bocce ferme, con tranquillità, e che decida di continuare a completare questo profondo percorso di rinnovamento intrapreso 24 mesi fa. Perchè Sanremo 2022 (o Sanremo 70+2, o Sanremo 100-28 che dir si voglia) necessita sia di continuità che di una buona dose di azzardo, quel guizzo che solo un grande appassionato di musica può riuscire a mettere in pratica. Non voglio abituarmi alla visione di un Festival moderato, passatista e retrogrado. Non voglio rassegnarmi ad un futuro che si veste di passato e che somiglia per fisionomia a questo incerto, scapestrato e disgraziato presente. Tanto è stato fatto, ma c’è ancora molto altro da fare.
Nico Donvito
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