lunedì 25 Novembre 2024

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Sanremo 70+1, Festival della canzone o dei cantanti?

Analisi storica sull’evolversi della kermesse canora sino ad oggi, scenari sul quale Amadeus dovrà riflettere

In queste ultime settimane, Amadeus me lo immagino proprio come Amleto, intento a riflettere davanti al suo bel teschio di Yorick, a porsi dilemmi e quesiti sul prossimo Festival di Sanremo. A cinque mesi di distanza dalla partenza della settantunesima edizione della manifestazione, Covid permettendo, potremmo già definire questo suo secondo mandato ancora più complicato e articolato del primo.

Seppur non sia stato anch’esso una passeggiata, lo scorso anno il direttore artistico è riuscito a fronteggiare le polemiche della vigilia portando a casa il risultato, lasciando parlare e cantare la musica, ma a questo giro potrebbe non bastare. Il suo ruolo andrà ben oltre la semplice selezione delle canzoni: Sanremo 70+1 avrà un valore simbolico per il pubblico da casa, oltre che una concreta opportunità di rilancio per un’intera industria in sofferenza.

Non vorrei buttarla in una tragedia shakespeariana, ma gli scenari su cui riflettere sono molteplici perchè, in settant’anni di storia, il Festival non ha mai dovuto fare i conti con un’emergenza di tale entità, chi lo ha amministrato nei decenni si è limitato a raccontare indirettamente il costume e le varie trasformazioni del nostro Paese: questa volta in gioco c’è molto di più, nelle mani di Amadeus ci sono aspetti da non sottovalutare e da tenere in seria considerazione.

Diventa necessario fare un lungo salto indietro nel tempo e partire dalle origini (proprio come stiamo facendo nella rubrica Sanremo per tutti, il Festival spiegato facile), da quella prima storica edizione datata 1951 che somiglia per certi versi alla prossima, perchè anche in quel caso si trattava di una ripartenza, dopo le fatiche belliche di ben due conflitti mondiali, che avevano profondamente segnato l’umanità intera.

In molti paragonano la pandemia ad un vera e propria guerra, anche se gli effetti sono differenti, perchè ciascuno di noi continua a vivere nel proprio piccolo o grande lusso, con un tetto sopra la testa e l’ausilio della tecnologia che ci permette di trovare un’alternativa virtuale al distanziamento sociale. Trovare delle alternative, ecco… un esercizio per cui, francamente, non abbiamo mai speso troppo interesse e troppe energie, in fondo pensavamo di avere tutto ciò che ci potesse servire a portata di mano o di click.

Riflettendoci bene, il Festival di Sanremo ha avuto un ruolo centrale negli anni ’50: riaccendere l’entusiasmo e favorire il rilancio culturale di un’Italia che, fino a quel momento, non si era mai sentita così unita. Prendendo in esame le prime edizioni ci rendiamo conto che a fare la differenza erano veramente le canzoni, addirittura superavano il numero degli stessi interpreti in gara, che venivano visti semplicemente degli esecutori.

La musica era davvero al centro dell’attenzione, la gente aveva voglia di emozionarsi, di cantare e di ballare, insomma: di lasciarsi alle spalle il passato. La doppia esecuzione (presente dal 1953 al 1971, fatta eccezione del 1956), permetteva di ascoltare la stessa canzone con due arrangiamenti e due performance completamente diverse, anche se poi, chiaramente, una aveva la meglio sull’altra in termini di consenso popolare.

Ma quando il Festival della canzone ha cominciato a diventare il Festival dei cantanti? Non c’è una data precisa, ci sono stati vari esperimenti e vari format, Sanremo ha cambiato più volte pelle, il processo è stato piuttosto naturale, conseguente al modo di intendere e di fruire la musica. Con il tempo si è sempre dato più spazio a personaggi e personalità, i cantanti stessi erano considerati dei divi, pensiamo a Claudio VillaDomenico Modugno, Nilla Pizzi, Adriano Celentano, Milva, Bobby Solo, Iva Zanicchi e via dicendo.

Negli anni ’60 le canzoni, seppur e ben fatte, erano diventate quasi un contorno, al pubblico interessava la sfida tra celebrità, chi arrivava primo e chi non passava in finale. Avere determinati nomi nel cast significava portare a casa l’attenzione di una vasta platea, oltre che la certezza di vendere migliaia di 45 giri all’indomani della kermesse. Piano piano, i big hanno iniziato a frequentare sempre meno la città dei fiori, preferendo altri contenitori quali Canzonissima o il Cantagiro.

La nascita della tv e la consacrazione della radio hanno incentivato questo passaggio epocale, così come la liberalizzazione delle emettenti private negli anni ’70, compatibilmente con la crisi degli interpreti e l’affermazione dei cantautori, artisti che per fisiologia non amano essere al centro dell’attenzione e che non hanno mai partecipato a Sanremo, tra tutti Claudio Baglioni, Francesco De Gregori, Antonello Venditti, Fabrizio De Andrè, Paolo Conte e altri ancora.

Un’ulteriore svolta arriva  con gli anni ’80 e con gli anni ’90, quando dal palco dell’Ariston vengono lanciate le carriere di Vasco Rossi, Zucchero, Eros Ramazzotti, Laura Pausini e Giorgia: il Festival assume per decenni una nuova funzione, almeno fino alla nascita dei talent show, veri e propri antagonisti di Sanremo Giovani. Con l’arrivo del nuovo millennio, assistiamo ad un ulteriore cambiamento, i big disertano la competizione, preferiscono andarci comodamente come ospiti, e lo spettacolo televisivo assume più importanza della musica stessa.

Almeno fino all’ultima edizione condotta da Amadeus, che ha segnato profondamente l’ennesima inversione di marcia: le canzoni sono tornate ad avere il ruolo che meritano, così tutti abbiamo avuto modo di poter beneficiare dei ritorni di Diodato e di Tosca, due esempi tra tutti, due scommesse stravinte, due belle storie che ci dimostrano che, quando viene data la possibilità ad un certo tipo di musica di essere rappresentata, non ce n’è davvero per nessuno.

Detto ciò, il direttore artistico avrà una bella gatta da pelare, il suo ruolo peserà più che in passato, perchè quest’anno potremmo assistere ad un ritorno in massa dei big, gli stessi che per anni hanno disertato e snobbato la kermesse. Considerata la grande incertezza del mondo live e l’ingente numero di album rimandati al 2021, Sanremo resta la vetrina più appetitosa e succulenta attualmente in circolazione. Una sorta di monopolio che, paradossalmente, ricorda molto le origini.

Se siete arrivati fin qui in attesa di leggere nomi, mi spiace deludervi, non ne farò… perchè non hanno alcuna importanza, sarebbero supposizioni prive di fondatezza, in più distoglierebbero dal senso di questo articolo, che è di tutt’altro respiro. Provate per un attimo a mettervi nei panni di Amadeus: un grande artista decide di tornare al Festival, ma la sua canzone lascia a desiderare. Voi che fareste?

In un altro momento storico, chiunque l’avrebbe assodato senza nemmeno ascoltare il brano, ma a che pro? In primis perchè l’immagine stessa di quel cantante rischia di uscirne danneggiata (perchè Sanremo ha anche rovinato carriere, non le ha soltanto lanciate), in secundis per l’armonia della gara, perchè si andrebbe a togliere UN posto ad una bella canzone. Avere un cast di big premia nell’immediato e negli ascolti, ma alla fine sono le canzoni a restare nel tempo… molto più dei cantanti.

Per giocare al toto-nomi c’è ancora tempo, quello che credo sia importante oggi è riflettere su un’atteggiamento, immedesimarsi nella figura del direttore artistico, che si ritrova a fare i conti con scelte difficili che, mi auguro, possano risultare ancora una volta efficaci e in controtendenza, proprio come lo scorso anno. Vorrei ascoltare nuove Fai rumore e nuove Ho amato tutto, ho davvero voglia di raccontare le storie di artisti che non godono dei favori dei pronostici o del supporto di grandi sponsor.

Quando viene data la possibilità alla musica di qualità di giocarsela con le cosiddette quote mainstream, non ce n’è per nessuno… mi riferisco sia ad artisti emergenti in cerca della grande occasione, ma anche di grandi personalità che per troppo tempo sono state bistrattate e relegate ad una “nicchia”, termine che non ha mai voluto significare un bel nulla, se non sottolineare un pregiudizio e una prigionia priva di fondatezza.

Questa è la musica che mi piacerebbe ascoltare, applaudire e raccontare di Sanremo 70+1, il Festival della ripartenza, non una passerella di nomi del momento o di big che si sono improvvisamente ricordati dell’esistenza di questa manifestazione, bensì una giusta e ben assortita rappresentanza di buone proposte musicali, a prescindere dal numero di anni in carriera o dal numero di certificazioni in bacheca. Per farlo non può che essere preso in considerazione un solo e sacrosanto criterio: la bellezza oggettiva e non soggettiva delle canzoni, in una sola parola: universale.

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Nico Donvito

Nato a Milano nel 1986, è un giornalista attivo in ambito musicale. Attraverso il suo impegno professionale, tra interviste e recensioni, pone sempre al centro della sua narrazione la passione per la buona musica, per la scrittura e per l’arte del racconto. Nel 2022 ha scritto il libro "Sanremo il Festival – Dall’Italia del boom al rock dei Måneskin" (edito D’idee), seguito da "Canzoni nel cassetto" (edito Volo Libero), impreziosito dalla prefazione di Vincenzo Mollica, scritto a quattro mani con Marco Rettani. L'anno seguente, sempre in coppia con Rettani, firma "Ho vinto il Festival di Sanremo" (edito La Bussola), con introduzione curata da Amadeus e il racconto di trenta vincitori della rassegna canora. Tale opera si è aggiudicata il Premio letterario Gianni Ravera 2024.